Architetture d'altrimondi
di Fabio Prestifilippo
Le poesie di Veronica Fallini
attingono dal reale per questioni
puramente formali e linguistiche, tutto il resto è una sapiente revisione del
mondo. L’autrice ci svela una geografia di cose che non tornano, di cose
avvolte in una nebulosa nella quale è facile smarrire anche il senso dei propri
ingombri terrestri. Rimescolare gli elementi genera una apparente perdita di
significato ; del “significato” come
possibilità di esprimere un concetto attraverso segni idiomatici. Se siamo
spettatori di un mondo che perde nel suo farsi le proprie generalità, pretendere
che il significato sia percepibile, quando di fatto il significante ha subito
una metamorfosi radicale, è una pretesa astratta. In “Oroscopi (e altre minute
ossessioni)” la parola sembra non concludersi mai; il magma linguistico dentro il quale circola il
ritmo dei versi è rappresentativo del limite che la Fallini cerca animosamente
di oltrepassare. Nel meraviglioso incipit che introduce al primo capitolo
l’autrice afferma:
La
poesia come nuotatori
ha
bisogno di apnee, non una vasca dietro l’altra
[…]E
all’emersione lo stupore del sopravvissuto.
Siamo sospesi in un incubo dove lo stupore del sopravvissuto
appare come una fragile salvezza? Già la Fallini di “Umane cose” aveva dato
inizio al suo viaggio forse indicandoci la misura degli elementi:“La sua forma è una strada / che non esiste
/ prima del passo. E ancora quando alla oscura fraseologia dell’universo
aggiunge elementi sensoriali illuminanti: “Una
percezione obliqua emerge / dal falò delle parole / un dietro mondo straniero /
si affaccia tra la polvere e le braccia.
Una topografia
astratta in questo senso viene allora a soccorrerci quando, come afferma Mario
Santagostini nella bella introduzione all’edizione LietoColle, il disordine è
radicale, quando l’autrice dissemina
questo universo con nuclei di senso altamente ostici da afferrare.
“Seminare gli occhi” scriveva Velimir
Chlebnikov; negli oroscopi tutti gli elementi sensoriali sono disseminati, con
la consapevolezza che dispiegare l’armonia che sottende al disordine è un’
impresa che va ben oltre la forza della parola-segno e della la parola-significato.
Se questa è terra d’esilio
solo alla fine del tempo torneremo
in patria.
Per noi – principianti allo sbaraglio –
si alzerà il giorno incarnato
e si solleveranno le dighe a far scorrere
il verbo nei solchi del costato
La silloge Oroscopi
(E altre minute ossessioni) è divisa in quattro sezioni: Oroscopi, Fantasmi,
Cartoline e Amore. L’oltremondo falliniano è disposto secondo dinamiche
narrative anche se la massa linguistica
strema il significante sino a sortire l’effetto di un caos ben congegnato.
Nella prima sezione
l’autrice definisce lo spazio della vicenda: un habitat dentro il quale, oltre
ad una cospicua e sinestetica categoria naturale, troveremo la sua parola, la
parola che non può vivere al di fuori del suo habitat. Si direbbe paradossale,
anche di fronte ad un’instancabile produzione di sinestesie il dettato risulta comunque
perentorio, forse alla ricerca di un presupposto morale: C’è una via facoltativa, ti dicono / diventa obbligatoria nel momento
del suo farsi / non è ancora depositata sul fondo / che è già passata tutta una
vita oppure Il tempo degli oggetti
non sa riempire gli attimi / ma solo alle basse frequenze si captano le voci.
Già in umane cose affermava: “E in ogni
direzione / l’anello del limite si apre / e consuma / tutta la luce. Il mondo è
solo un indizio, / noi i cani / che
seguono la pista.”
Definito lo spazio,
dove per altro compaiono già alcune inquietanti presenze – dementi pionieri dell’aurora, bambini di serra nella scuola
d’infanzia, rigidi tizzoni di spettri,
sterpi sul punto di urlare – Veronica Fallini principia un dialogo
incaricato di svelare le peculiarità agghiaccianti dei suoi “ospiti”. Lo fa
attraverso un modus operandi caro al Montale delle “Occasioni” e sono appunto le occasioni della memoria –
propria e di altri – a caratterizzare la seconda sezione del libro.
Fantasmi: questo è
il luogo dove il rovesciamento dei ruoli è definito
- sempre nella misura di un
rapporto tra significato e significante a volte certo a volte negato – e
sigillato.
Diciamo di tener vivi i morti, ricordandoli/ma se
fossero loro a ricordare noi?
A loro, ai morti,
viene affidata un’identità postuma ma permane un attitudine al mutismo: il senso delle cose,
perduto per volontà in vita, qui è
definitivamente paralizzato.
In Cartoline, terza sezione del canto, si
dipana lentamente il contorno di una impressione di luce; la pausa e un primo
faticoso risveglio sono i termini fissi di questo capitolo nel quale non è
ancora ben chiaro se l’autrice voglia lasciarci una goccia di splendore. Le terribili presenze vaganti nel buio di un
limbo surreale ci danno dei segnali, ammiccano a un’incrinatura rivolti verso l’alba di un giorno ancora straniero.
Jennifer Egan
afferma che la pausa segna la nostra percezione del tempo che scorre: “In attesa di colmare un seme di luce / e
alzare il passo verso la stagione severa/la linfa dormiente nel mio costato / sorveglia
i fiori che premono la terra […]”. Se di fatto la pausa è una misura del tempo,
in “Cartoline” c’è il timore di colmarla ancor prima che il tempo riprenda il
suo ritmo, la sua quantità: “L’inquilino del mondo / che attraversa la strada a
ora tarda / non deve accendere la luce”, ma è anche contenitrice di un’atipica
nostalgia del presente: “Mi rincuorano i tuoi panni / stesi in bagno ad
asciugare / e la festa di farina recente.”
Non mi è congegnale
la poesia che usa la negatività come presupposto e conclusione, piuttosto amo
il poeta immerso in una cosmologia del negativo dal quale tenta, con tutta la
forza che la parole gli concede, di uscirne. Il linguaggio poetico possiede
un’energia autonoma che non può prescindere dalla tensione verso un’ etica
della verità; l’incubo dell’introspezione, anche quando è nella sua fase più
parossistica, se non trova un viatico diventa automaticamente posa estetica e
perde qualsiasi valore. Non corre questo
genere di rischio il nuotatore di Veronica che necessita di lunghe apnee e poi,
in debito d’ossigeno, risorge dall’acqua. E se lo stupore del nuotatore fosse
in realtà meraviglia per un mondo che ha cambiato inclinazione ma che permane
come luogo della vita?
Nella dichiarazione
di una dialettica tra luce e ombra, tra apnea e respiro, come infrastruttura
portante dell’opera Falliniana, “Oroscopi (E altre minute ossessioni) procede
verso la conclusione. Ne abbiamo già un vago sentore poco prima del magnifico
capitolo finale. Ancora in Cartoline: “Si
pagano tutte le albe perdute, nello sprofondo dei volti/mentre l’occidente è
rimandato.”
Amore è la
sezione finale composta da due poesie che – per quanto riguarda il mio modesto
parere – anche decontestualizzate dalla filologia dell’opera, diventano
istantaneamente dei piccoli capolavori umani. Nei versi finali Veronica Fallini
scioglie in parte il dedalo di strade nel quale ci ha guidati, rammentandoci
che attraverso un perdurante ritorno alle cose, diventando gli attori di un
viaggio che non si conclude, che ciclicamente ci impone altre apnee, altre
immersioni nella nostra oscurità umana, possiamo riemergere come meravigliati
nuotatori … in attesa di un altro seme di
luce da colmare.
Ora potrò fare il viaggio all’incontrario
salirò la discesa dal ponte
comprerò il biglietto timbrato
mi allaccerò le scarpe
e alla fine saranno allineate
le mie vertebre sulla massicciata.