martedì 29 maggio 2012







Architetture d'altrimondi

di Fabio Prestifilippo


Le poesie di Veronica Fallini  attingono dal reale  per questioni puramente formali e linguistiche, tutto il resto è una sapiente revisione del mondo. L’autrice ci svela una geografia di cose che non tornano, di cose avvolte in una nebulosa nella quale è facile smarrire anche il senso dei propri ingombri terrestri. Rimescolare gli elementi genera una apparente perdita di significato ; del  “significato” come possibilità di esprimere un concetto attraverso segni idiomatici. Se siamo spettatori di un mondo che perde nel suo farsi le proprie generalità, pretendere che il significato sia percepibile, quando di fatto il significante ha subito una metamorfosi radicale, è una pretesa astratta. In “Oroscopi (e altre minute ossessioni)” la parola sembra non concludersi mai; il  magma linguistico dentro il quale circola il ritmo dei versi è rappresentativo del limite che la Fallini cerca animosamente di oltrepassare. Nel meraviglioso incipit che introduce al primo capitolo l’autrice afferma:
La poesia come nuotatori
ha bisogno di apnee, non una vasca dietro l’altra
[…]E all’emersione lo stupore del sopravvissuto.

Siamo sospesi  in un incubo dove lo stupore del sopravvissuto appare come una fragile salvezza? Già la Fallini di “Umane cose” aveva dato inizio al suo viaggio forse indicandoci la misura degli elementi:“La sua forma è una strada / che non esiste / prima del passo. E ancora quando alla oscura fraseologia dell’universo aggiunge elementi sensoriali illuminanti: “Una percezione obliqua emerge / dal falò delle parole / un dietro mondo straniero / si affaccia tra la polvere e le braccia.
Una topografia astratta in questo senso viene allora a soccorrerci quando, come afferma Mario Santagostini nella bella introduzione all’edizione LietoColle, il disordine è radicale, quando l’autrice dissemina questo universo con nuclei di senso altamente ostici da afferrare.
Seminare gli occhi” scriveva Velimir Chlebnikov; negli oroscopi tutti gli elementi sensoriali sono disseminati, con la consapevolezza che dispiegare l’armonia che sottende al disordine è un’ impresa che va ben oltre la forza della parola-segno e della la parola-significato.

Se questa è terra d’esilio
solo alla fine del tempo torneremo
in patria.

Per noi – principianti allo sbaraglio –
si alzerà il giorno incarnato
e si solleveranno le dighe a far scorrere
il verbo nei solchi del costato

La silloge Oroscopi (E altre minute ossessioni) è divisa in quattro sezioni: Oroscopi, Fantasmi, Cartoline e Amore. L’oltremondo falliniano è disposto secondo dinamiche narrative anche se  la massa linguistica strema il significante sino a sortire l’effetto di un caos ben congegnato.  
Nella prima sezione l’autrice definisce lo spazio della vicenda: un habitat dentro il quale, oltre ad una cospicua e sinestetica categoria naturale, troveremo la sua parola, la parola che non può vivere al di fuori del suo habitat. Si direbbe paradossale, anche di fronte ad un’instancabile produzione di sinestesie il dettato risulta comunque perentorio, forse alla ricerca di un presupposto morale: C’è una via facoltativa, ti dicono / diventa obbligatoria nel momento del suo farsi / non è ancora depositata sul fondo / che è già passata tutta una vita oppure Il tempo degli oggetti non sa riempire gli attimi / ma solo alle basse frequenze si captano le voci. Già in umane cose affermava: “E in ogni direzione / l’anello del limite si apre / e consuma / tutta la luce. Il mondo è solo un indizio, /  noi i cani / che seguono la pista.”
Definito lo spazio, dove per altro compaiono già alcune inquietanti presenze – dementi pionieri dell’aurora, bambini di serra nella scuola d’infanzia,  rigidi tizzoni di spettri, sterpi sul punto di urlare – Veronica Fallini principia un dialogo incaricato di svelare le peculiarità agghiaccianti dei suoi “ospiti”. Lo fa attraverso un modus operandi caro al Montale delle “Occasioni” e  sono appunto le occasioni della memoria – propria e di altri – a caratterizzare la seconda sezione del libro.
Fantasmi: questo è il luogo dove il rovesciamento dei ruoli  è definito  -  sempre nella misura di un rapporto tra significato e significante a volte certo a volte negato – e sigillato.
Diciamo di tener vivi i morti, ricordandoli/ma se fossero loro a ricordare noi?  
A loro, ai morti, viene affidata un’identità postuma ma permane  un attitudine al mutismo: il senso delle cose, perduto per volontà in vita, qui è  definitivamente paralizzato.
In Cartoline, terza sezione del canto, si dipana lentamente il contorno di una impressione di luce; la pausa e un primo faticoso risveglio sono i termini fissi di questo capitolo nel quale non è ancora ben chiaro se l’autrice voglia lasciarci una goccia di splendore. Le terribili presenze vaganti nel buio di un limbo surreale ci danno dei segnali, ammiccano a un’incrinatura rivolti verso l’alba di un giorno ancora straniero.
Jennifer Egan afferma che la pausa segna la nostra percezione del tempo che scorre:  “In attesa di colmare un seme di luce / e alzare il passo verso la stagione severa/la linfa dormiente nel mio costato / sorveglia i fiori che premono la terra […]”. Se di fatto la pausa è una misura del tempo, in “Cartoline” c’è il timore di colmarla ancor prima che il tempo riprenda il suo ritmo, la sua quantità: “L’inquilino del mondo / che attraversa la strada a ora tarda / non deve accendere la luce”, ma è anche contenitrice di un’atipica nostalgia del presente: “Mi rincuorano i tuoi panni / stesi in bagno ad asciugare / e la festa di farina recente.”
Non mi è congegnale la poesia che usa la negatività come presupposto e conclusione, piuttosto amo il poeta immerso in una cosmologia del negativo dal quale tenta, con tutta la forza che la parole gli concede, di uscirne. Il linguaggio poetico possiede un’energia autonoma che non può prescindere dalla tensione verso un’ etica della verità; l’incubo dell’introspezione, anche quando è nella sua fase più parossistica, se non trova un viatico diventa automaticamente posa estetica e perde qualsiasi valore.  Non corre questo genere di rischio il nuotatore di Veronica che necessita di lunghe apnee e poi, in debito d’ossigeno, risorge dall’acqua. E se lo stupore del nuotatore fosse in realtà meraviglia per un mondo che ha cambiato inclinazione ma che permane come luogo della vita?
Nella dichiarazione di una dialettica tra luce e ombra, tra apnea e respiro, come infrastruttura portante dell’opera Falliniana,  “Oroscopi (E altre minute ossessioni) procede verso la conclusione. Ne abbiamo già un vago sentore poco prima del magnifico capitolo finale. Ancora in Cartoline: “Si pagano tutte le albe perdute, nello sprofondo dei volti/mentre l’occidente è rimandato.”
Amore è la sezione finale composta da due poesie che – per quanto riguarda il mio modesto parere – anche decontestualizzate dalla filologia dell’opera, diventano istantaneamente dei piccoli capolavori umani. Nei versi finali Veronica Fallini scioglie in parte il dedalo di strade nel quale ci ha guidati, rammentandoci che attraverso un perdurante ritorno alle cose, diventando gli attori di un viaggio che non si conclude, che ciclicamente ci impone altre apnee, altre immersioni nella nostra oscurità umana, possiamo riemergere come meravigliati nuotatori … in attesa di un altro seme di luce da colmare.

Ora potrò fare il viaggio all’incontrario
salirò la discesa dal ponte
comprerò il biglietto timbrato
mi allaccerò le scarpe
e alla fine saranno allineate
le mie vertebre sulla massicciata.

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