giovedì 25 ottobre 2012





Michela Murgia – A colpi di rosario


Non è certo la scoperta del secolo: chi ama la narrativa pura esige che la storia gli si attacchi agli occhi perniciosamente, che diventi la sua malattia mensile. Il lettore reclama d’essere coccolato, che le vicende dell’eroe siano il suo primo pensiero al risveglio e l’ultimo prima di addormentarsi. Se avvezzo ad un trattamento di lusso raramente gli capiterà di godere di un romanzo che, per motivi del tutto fittizi, distragga dalla storia;  accidenti come il prurito alla schiena, la mosca e la zanzara.
Eppure può accadere una cosa del tutto inaspettata: la vicenda si distacca completamente dal continuum narrativo per diventare il ricordo di una precisa fase della nostra esistenza.
Così L’incontro di Michela Murgia è la storia della mia infanzia che non ha nulla in comune con le vicende del protagonista… è la separazione tra il contenuto effettivo del libro “Ogni estate Maurizio, Franco e Giulio diventano fratelli di biglie, di caccia alle libellule, di storie di fantasmi e di lotta ai topi. Ma nell’estate del 1986 qualcosa, a Crabas, è destinato a mettere in crisi quel presente plurale così naturale e così dato per scontato: il vescovo Sparedda, ormai vicino al pensionamento, si mette in testa di fondare in paese una nuova parrocchia intitolata al Sacro Cuore di Gesù, che farà compagnia a quella di Santa Maria, da sempre «il polmone della comunità». Imprevedibilmente, Crabas si spacca tra favorevoli e contrari. E per la prima volta il confine tra noi e loro diventa una frattura che attraversa le vie del paese.
La tensione aumenta man mano che ci si avvicina alla cerimonia dell’incontro. Orgoglio di Crabas, L'incontro è la processione più importante dell’anno: non una, ma due statue – quella della Vergine e quella di Gesù – se ne vanno a zonzo su due percorsi diversi, per incontrarsi infine nella piazza principale. Ma cosa può succedere se, per colpa di parroci e parrocchiani incapaci di mettersi d’accordo, le statue che si aggirano per il paese sono addirittura quattro?”
e tutte le indicibili angherie commesse a danno mio e degli altri  in quell’età dove solo la paura dello schiaffone pone un limite alla crudeltà; se ci ripenso adesso mi viene una pena angosciosa ripensandomi aguzzino delle salamandre, bulletto notturno dei fossati e sterminatore indefesso delle ebracce. Con L’incontro non c’è stata la (da alcuni esasperata) "immedesimazione", bensì una serie di eventi narrativi scatenanti ricordi tutt’altro che contestuali alla fabula: io leggevo e la mia memoria componeva le dinamiche di un’altra storia: la catarsi della mia età crudele.  Questa non potrà mai essere una critica nel senso classico del termine, semmai una fuga, un dileguarsi dal pericolo del giudizio perché giudicare comporterebbe un allontanamento da una delle esperienze più strane della mia vita di lettore. Lasciatemelo dire, letta l’ultima pagina e chiuso il libro ho pensato: “quell’infame di rudy mi deve ancora 500 lire”. Provateci…

giovedì 6 settembre 2012




L'erotismo di Oberdan Baciro di Lelio Luttazzi


 Molti preferiscono affidarsi a metafore ittiche come pesce in mano sotto la doccia, mercato del pesce sul divano, la solitudine del pescivendolo. Zaganella è la mia prediletta, sega forse è un termine un po' trito e triste. E’ una gioia la zaganella? Chi lo può sapere.
Tutti gli uomini forse sono uomini-zaga; e l’uomo-zaga si sa, è sempre al passo coi tempi. Potremmo aprire un interminabile simposio sulla questione derivante dalle nuove frontiere della zaganella dopo l’avvento di internet, ma non mi sembra il caso di pigiare troppo forte sul tasto di un argomento che è divertente solo se trattato come un breve insieme di motti di spirito, consumati davanti alla macchinetta del caffè: “cosa farai nel week?”.
Oberdan Baciro, l’eroe della nostra storia, è tutt’altro che un uomo frustrato ed è lontano dall'essere contemporaneo; in prima istanza perchè non è un adulto ma un bambino di 8 anni, precocemente erotomane, incline al voyeurismo, zaga dipendente e figlio di una madre irredentista, patriota e rompiglioni secondariamente perchè è nella triste era fascista che Oberdan subisce le sue funamboliche sfighe.

“A Oberdan il termine <<paradiso>> sembrò un tantino esagerato. Non di meno quel brividino così poco gli dispiacque, che da allora non lasciò passare un solo giorno senza procurarselo – e più di una volta – fino ad omologare, a undici anni, il Record delle Ventiquattrore Venezia Giulia (tredici pippe in un pomeriggio).

 In un clima di fascistissime astinenze, in una  casa dove il sesso è una privazione oltremodo fisica e verbale, in una Trieste apparentemente bigotta dove le faccende del piacere si sbrigano nelle case di tolleranza, nei sotto scala dei palazzi, sulle panchine di un parco fuori porta, si configurano le vicende tragicomiche dell’educazione sessuale del nostro decerebrato Oberdan (anche se l’autore tenta in ogni modo di affibbiarli, attraverso trite prove di filosofie da taccuino, una debole identità intellettuale). La sua mente è totalmente obnubilata dal disperato tentativo, oramai adolescente, di perdere la sua vergognosa verginità.  Poiché alla base non serve, non emerge mai un riconoscile profilo psicologico del protagonista. Insomma Oberdan si districa all’interno di una tale quantità di fatalità avverse che sembrerebbero destinarlo all’eterna verginità: herpes genitali, fidanzate che lo tengono perennemente in uno stato d’eccitazione senza via di fughe, ragazzine della Trieste bene, disinibite, che lo illudono per poi gettarlo in uno stato di prostrazione ancora più profondo. Una tragedia comica quella di Baciro, dai risvolti grotteschi, per un soggetto che sembra essere stato forgiato per il sesso ma che il destino non vuole aiutare.

“La prima ero-storia di Oberdan ebbe luogo a Trieste, nel giardino di casa di un’amica di sua madre.
[…] – Ciapa quel sasso piato… sì, quel… e adesso sfreghmelo qua!
Si trattava, se Oberdan aveva ben capito, di strusciale la chiappa non già con la manina, ma con una pietra!
Deluso ma obbediente, Oberdan eseguì.
Durante l’operazione Aurora sudacchiava e respirava affannosamente, e Oberdan ne trasse un’impressione a dir poco strana.
Né la propria esperienza gli consentì di inquadrare il fenomeno nel novero dei feticismi.
Improvvise voci in avvicinamento”

E’ un romanzo che mi sento di consigliare perché si “muore dal ridere”, perché il nostro protagonista – prima infante timidamente audace, poi adolescente ancora scandalosamente vergine – è anticonvenzionale, è resistente, è antifascista e  fondamentalmente non passa mai la mano; atteggiamento assai raro nello zagamento esistenziale della nostra epoca.

martedì 29 maggio 2012







Architetture d'altrimondi

di Fabio Prestifilippo


Le poesie di Veronica Fallini  attingono dal reale  per questioni puramente formali e linguistiche, tutto il resto è una sapiente revisione del mondo. L’autrice ci svela una geografia di cose che non tornano, di cose avvolte in una nebulosa nella quale è facile smarrire anche il senso dei propri ingombri terrestri. Rimescolare gli elementi genera una apparente perdita di significato ; del  “significato” come possibilità di esprimere un concetto attraverso segni idiomatici. Se siamo spettatori di un mondo che perde nel suo farsi le proprie generalità, pretendere che il significato sia percepibile, quando di fatto il significante ha subito una metamorfosi radicale, è una pretesa astratta. In “Oroscopi (e altre minute ossessioni)” la parola sembra non concludersi mai; il  magma linguistico dentro il quale circola il ritmo dei versi è rappresentativo del limite che la Fallini cerca animosamente di oltrepassare. Nel meraviglioso incipit che introduce al primo capitolo l’autrice afferma:
La poesia come nuotatori
ha bisogno di apnee, non una vasca dietro l’altra
[…]E all’emersione lo stupore del sopravvissuto.

Siamo sospesi  in un incubo dove lo stupore del sopravvissuto appare come una fragile salvezza? Già la Fallini di “Umane cose” aveva dato inizio al suo viaggio forse indicandoci la misura degli elementi:“La sua forma è una strada / che non esiste / prima del passo. E ancora quando alla oscura fraseologia dell’universo aggiunge elementi sensoriali illuminanti: “Una percezione obliqua emerge / dal falò delle parole / un dietro mondo straniero / si affaccia tra la polvere e le braccia.
Una topografia astratta in questo senso viene allora a soccorrerci quando, come afferma Mario Santagostini nella bella introduzione all’edizione LietoColle, il disordine è radicale, quando l’autrice dissemina questo universo con nuclei di senso altamente ostici da afferrare.
Seminare gli occhi” scriveva Velimir Chlebnikov; negli oroscopi tutti gli elementi sensoriali sono disseminati, con la consapevolezza che dispiegare l’armonia che sottende al disordine è un’ impresa che va ben oltre la forza della parola-segno e della la parola-significato.

Se questa è terra d’esilio
solo alla fine del tempo torneremo
in patria.

Per noi – principianti allo sbaraglio –
si alzerà il giorno incarnato
e si solleveranno le dighe a far scorrere
il verbo nei solchi del costato

La silloge Oroscopi (E altre minute ossessioni) è divisa in quattro sezioni: Oroscopi, Fantasmi, Cartoline e Amore. L’oltremondo falliniano è disposto secondo dinamiche narrative anche se  la massa linguistica strema il significante sino a sortire l’effetto di un caos ben congegnato.  
Nella prima sezione l’autrice definisce lo spazio della vicenda: un habitat dentro il quale, oltre ad una cospicua e sinestetica categoria naturale, troveremo la sua parola, la parola che non può vivere al di fuori del suo habitat. Si direbbe paradossale, anche di fronte ad un’instancabile produzione di sinestesie il dettato risulta comunque perentorio, forse alla ricerca di un presupposto morale: C’è una via facoltativa, ti dicono / diventa obbligatoria nel momento del suo farsi / non è ancora depositata sul fondo / che è già passata tutta una vita oppure Il tempo degli oggetti non sa riempire gli attimi / ma solo alle basse frequenze si captano le voci. Già in umane cose affermava: “E in ogni direzione / l’anello del limite si apre / e consuma / tutta la luce. Il mondo è solo un indizio, /  noi i cani / che seguono la pista.”
Definito lo spazio, dove per altro compaiono già alcune inquietanti presenze – dementi pionieri dell’aurora, bambini di serra nella scuola d’infanzia,  rigidi tizzoni di spettri, sterpi sul punto di urlare – Veronica Fallini principia un dialogo incaricato di svelare le peculiarità agghiaccianti dei suoi “ospiti”. Lo fa attraverso un modus operandi caro al Montale delle “Occasioni” e  sono appunto le occasioni della memoria – propria e di altri – a caratterizzare la seconda sezione del libro.
Fantasmi: questo è il luogo dove il rovesciamento dei ruoli  è definito  -  sempre nella misura di un rapporto tra significato e significante a volte certo a volte negato – e sigillato.
Diciamo di tener vivi i morti, ricordandoli/ma se fossero loro a ricordare noi?  
A loro, ai morti, viene affidata un’identità postuma ma permane  un attitudine al mutismo: il senso delle cose, perduto per volontà in vita, qui è  definitivamente paralizzato.
In Cartoline, terza sezione del canto, si dipana lentamente il contorno di una impressione di luce; la pausa e un primo faticoso risveglio sono i termini fissi di questo capitolo nel quale non è ancora ben chiaro se l’autrice voglia lasciarci una goccia di splendore. Le terribili presenze vaganti nel buio di un limbo surreale ci danno dei segnali, ammiccano a un’incrinatura rivolti verso l’alba di un giorno ancora straniero.
Jennifer Egan afferma che la pausa segna la nostra percezione del tempo che scorre:  “In attesa di colmare un seme di luce / e alzare il passo verso la stagione severa/la linfa dormiente nel mio costato / sorveglia i fiori che premono la terra […]”. Se di fatto la pausa è una misura del tempo, in “Cartoline” c’è il timore di colmarla ancor prima che il tempo riprenda il suo ritmo, la sua quantità: “L’inquilino del mondo / che attraversa la strada a ora tarda / non deve accendere la luce”, ma è anche contenitrice di un’atipica nostalgia del presente: “Mi rincuorano i tuoi panni / stesi in bagno ad asciugare / e la festa di farina recente.”
Non mi è congegnale la poesia che usa la negatività come presupposto e conclusione, piuttosto amo il poeta immerso in una cosmologia del negativo dal quale tenta, con tutta la forza che la parole gli concede, di uscirne. Il linguaggio poetico possiede un’energia autonoma che non può prescindere dalla tensione verso un’ etica della verità; l’incubo dell’introspezione, anche quando è nella sua fase più parossistica, se non trova un viatico diventa automaticamente posa estetica e perde qualsiasi valore.  Non corre questo genere di rischio il nuotatore di Veronica che necessita di lunghe apnee e poi, in debito d’ossigeno, risorge dall’acqua. E se lo stupore del nuotatore fosse in realtà meraviglia per un mondo che ha cambiato inclinazione ma che permane come luogo della vita?
Nella dichiarazione di una dialettica tra luce e ombra, tra apnea e respiro, come infrastruttura portante dell’opera Falliniana,  “Oroscopi (E altre minute ossessioni) procede verso la conclusione. Ne abbiamo già un vago sentore poco prima del magnifico capitolo finale. Ancora in Cartoline: “Si pagano tutte le albe perdute, nello sprofondo dei volti/mentre l’occidente è rimandato.”
Amore è la sezione finale composta da due poesie che – per quanto riguarda il mio modesto parere – anche decontestualizzate dalla filologia dell’opera, diventano istantaneamente dei piccoli capolavori umani. Nei versi finali Veronica Fallini scioglie in parte il dedalo di strade nel quale ci ha guidati, rammentandoci che attraverso un perdurante ritorno alle cose, diventando gli attori di un viaggio che non si conclude, che ciclicamente ci impone altre apnee, altre immersioni nella nostra oscurità umana, possiamo riemergere come meravigliati nuotatori … in attesa di un altro seme di luce da colmare.

Ora potrò fare il viaggio all’incontrario
salirò la discesa dal ponte
comprerò il biglietto timbrato
mi allaccerò le scarpe
e alla fine saranno allineate
le mie vertebre sulla massicciata.

venerdì 25 maggio 2012

venerdì 11 maggio 2012



Emergenze della memoria

Marino Moretti

di Fabio Prestifilippo

La rubrica “urgenze della memoria” che pubblica a scadenza casuale è felice di ospitare tutti i poeti che corrono il rischio di finire nella teca a tenuta stagna dei dimenticati per sempre. Moretti è in pericolo; anche se  insignito ex vivo del più alto fra i riconoscimenti editoriali - il Meridiano Mondadori -  ed anche se Palomar pubblicò nell’antidiluviano 1992 una preziosa edizione di “Poesie scritte col lapis” ed anche se la stessa casa editrice ne ha stampata una nuova edizione con grafica rivista ma con lo stesso apparato critico, se escludiamo alcuni carteggi comparsi miracolosamente dalla nebulosa dell’editoria di nicchia (ultimo dei quali pubblicato da “Storia e Letteratura” collana Epistolari, carteggi e testimonianze per l’accessibilissima cifra di 28 euro)  ad oggi sembra che Marino Moretti sia tra i poeti che  presto o tardi diventeranno introvabili anche nelle biblioteche dei piccoli paesi di provincia.

E voglio che questa nostra
Grande famiglia discreta
Mi guardi e dica: il poeta,

il poeta sulla giostra!
E rida e rida perché
Un poeta che si mostra su
un cavallo della giostra
Sembra il pagliaccio ch’egli è!

(Marino Moretti da La giostra)


Marino Moretti è nato  a Cesenatico in provincia di Forlì nel 1885, da Ettore, impiegato al Comune e imprenditore di trasporti marittimi, e da Filomena Moretti, insegnante elementare, di origine marchigiana. Frequentò la scuola elementare a Cesenatico nella classe della madre, esperienza indubbiamente importante per la formazione della sua personalità.Nel 1896 venne iscritto presso l'Istituto "Sant'Apollinare" di Ravenna diretto da religiosi, ma l'anno seguente lo abbandonò per il profitto scadente. Si iscrisse quindi al liceo-ginnasio "Vittorino da Feltre" di Bologna che lasciò nel 1900, senza aver conseguito la licenza ginnasiale...


di Marino Moretti
A Cesena

Piove. E’ mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia delle case senza posa,
schiume ai piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella tua vita, bella.

Bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un pò di bene.

“Mamma!” tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei viaggi, poi...

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perchè; ripeti ancora
quando, come, perchè, chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo , di nuora.
Parli d’una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto,
il nonno ricco del tuo Dino, e dici:
“Vedrai, vedrai se lo terrò di conto”.

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.


Piove. E’ mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui,
tutta d’un uomo ch’io conosco appena,

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla... così,
senza dolcezza mentre piove o spiove:

“La mamma nostra t’avrà detto che...
E poi si vede, ora si vede, e come!
Sì, sono in cinta... Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome...
Ho fortuna, è una buona gravidanza...”

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. E’ tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

Io non ho nulla da dire

Aver qualche cosa da dire
nel mondo a se stessi, alla gente.
Che cosa? Non so veramente
perché io non ho nulla da dire.

Che cosa? Io non so veramente.
Ma ci sono quelli che sanno.
Io – lo confesso a mio danno –
non ho da dir nulla ossia niente.

Perché continuare a mentire,
cercare d’illudersi? Adesso
ch’io parlo a me mi confesso:
io non ho niente da dire.

Eppure fra tante persone,
fra tanti culti colleghi
io sfido a trovar che mi neghi
d’aver questa o quella opinione,
e forse mia madre, la sola
che veda ora in me fino in fondo,
è certa che anch’io venni al mondo
per dire una grande parola.

Gli amici discutono d’arte,
di Dio, di politica, d’altro:
è c’è che mi crede il più scaltro
perché mi fo un poco in disparte;

qualcuno vorrebbe sentire
da me qualche cosa di più.
"Hai nulla da aggiungere tu?"
"Io, no, non ho niente da dire."

È triste. Credetelo, in fondo,
è triste. Non esser niente.
Sfuggire così facilmente
a tutte le noie del mondo.

Sentirsi nell’anima il vuoto
quando altri più parla e ragiona.
Veder quella brava persona
imporsi un gran compito ignoto.

E quelli che chiedono a un tratto:
"Che avresti tu detto al mio posto?"
"Io…Non avrei forse risposto…
Io…mi sarei finto distratto."

Non aver nulla, né mire,
né bei sopraccapi, né vizi;
osar fino in mezzo ai comizi:
"No, sa? Non ho niente da dire."

Ed esser creduto un insonne,
un uomo che veglia sui libri,
un’anima ardita che vibri
da tutto uno stuolo di donne.

"Mi dica, sua madre che dice?
Io so dai suoi libri che adora
sua madre. Nevvero, signora?
nevvero che è tanto felice?

Un figlio! Vederlo salire,
seguirne il pensiero profondo…"
Ed io son l’unico al mondo
che non ha niente da dire.

(da Il giardino dei frutti)

La signora Lalla

Quando l'anima è stanca e troppo sola
e il cuor non basta a farle compagnia,
si tornerebbe discoli per via,
si tornerebbe scolaretti a scuola.

Ma sì, prendiamo la cartella scura,
il calamaio in forma di barchetta,
i pennini, la gomma, la cannetta,
la storia sacra e il libro di lettura.

Andiamo dunque: il tema è messo in bella;
andiamo, andiamo: il tema è messo in buona;
Dio, com'è tardi! La campana suona,
tra poco sonerà la campanella.

Ma che dico? è domenica, è vacanza!
Non c'è scuola quest'oggi, solamente
c'è da imparare un po' di storia a mente
soli, annoiati, nella propria stanza.

C'era una volta (ora mi viene a mente)
la scuola della festa: era una scuola
alla buona, così, con una sola
maestra, vecchia, senza la patente.
Signora Lalla, dove sei? T'aggiri
nella tua casa piena di panchetti
e sul quaderno scrivi un 5 o metti
un punto sopra un i con due sospiri?

Signora Lalla, hai più quel mio ritratto
ch'io ti donai per Sant'Eulalia? e quella
treccia, in un quadro, d'una tua sorella
defunta? e l'altarino è ancora intatto?

Forse sei morta. Ed i tuoi strani oggetti
sono scesi con te, con la tua spoglia
dentro la fossa. La tua casa è spoglia
dei quadri, dei presepi e dei panchetti.

Che importa? Io t'amo e tu sei viva, o muta
immagine che guardi i miei quaderni
d'ora e i noti caratteri vi scerni
con uno sguardo di sopravvissuta.

Come son vani, come son diversi,
signora Lalla, i miei compiti d'ora.
Dimmi, vuoi riguardarmeli tu ancora?
Sembra uno scherzo, ma son tutti in versi.

(da Poesie scritte col lapis)

Valigie

Voglio cantare tutte l’ore grigie
in questa solitudine pensosa
mentre raduno ogni mia vecchia cosa
a riempir le mie vecchie valigie.

Oh le valigie, le compagne buone
dei poveri viaggi in terza classe
vecchie, sfiancate, fatte con qualche asse
sottile e con la tela e col cartone.

Le camicie van qui da questa parte,
quaggiù ai colletti cerco di far posto,
lì le cravatte e qua, quasi nascosto,
un manoscritto, e ancora libri e carte.

Ecco il pacchetto della mamma. Odora
vagamente di cacio e di salame.
Già, se avessi in viaggio ancora fame.
E questo libro e un altro, un altro ancora.

Dove vado? Non so. Ma mi sovviene
d’averla pur desiderata questa
partenza come, il piccolo, la festa
che col serraglio e con la giostra viene.

Dove, non so. Ma pare a me ch’io debba
vivere senza scopo, allo sbaraglio;
e a tratti con l’inutile bagaglio
partir per i paesi della nebbia…

(da Poesie di tutti i giorni)

La signorina più vecchia di me


Se amassi voi, se amassi voi che avete
dieci anni più di me, che su la fronte
gialliccia avete ormai tutte le impronte
di quei dieci anni di ansietà segrete!

Voi lavorate accanto alla finestra
fiorita di vasetti di vaniglia,
e siete ancora figlia di famiglia,
e avete la patente di maestra!

Che tristezza pensarvi! Avete amato
una sol volta quindici anni fa;
ma, ohimè, raggiunta la felicità,
vi morì di pleurite il fidanzato.

Un mese prima delle nozze! Ebbene,
vi giuro che geloso io non sarei
del suo ricordo e vi permetterei
di ripensarlo e di volergli bene.

E se un giorno appressasi al vostro stanco
volto o ai capelli le mie labbra amare
non mi dispiacerebbe di baciare
una ruga profonda, un filo bianco!

Dolce sarebbe la mia vita, uguale,
placida, tra i vasetti di vaniglia,
e, intenta al batter delle vostre ciglia,
scorderebbe i suoi sogni ed il suo male.

E vi direi prendendovi le dita
un pò indurite, un pò forate in cima:
“ Posso giurarti che tu sei la prima,
la prima donna che amo per la vita! “

E allora, con un gesto un pò materno,
voi mi direste flebile: “ Bambino! “,
ma mi verreste sempre più vicino
per sussurrarmi: “ In eterno! In eterno! “

Il paiuolo

Madre, se vuoi ch’io t’ami
come ti si conviene,
resta fra i tuoi tegami
smaltati bianchi e blu:
vuoi ch’io ti voglia più’
bene, molto più’ bene?

Resta in cucina dove
la tua dolcezza ha un gaio
riso che mi commuove
quando passa bel bello
dall’acquaio al fornello,
dal fornello all’acquaio;

poi va’, corri in giardino
e coglilo un rametto
d’adusto ramerino
o di scherzoso alloro
o qualche pomodoro
ancora un poco aspretto;

poi trita con un muto
cenno le tue cipolle
giovani pel battuto
e accortamente schiuma
la pentola che bolle,
il bricchetto che fuma;

si’ che, mentre la fiamma
si fa sempre più’ roca
nella cappa segreta,
tu pensa che la mamma
del giovane poeta
sa fare anche la cuoca.

Oh lascia che io prenda
queste mani che sanno
di carne cotta in forno
e far sempre sapranno
ogni buona faccenda
fino all’ultimo giorno;

oh lascia ch’io dica:
“ Triste, mammina, triste
sapere troppe cose
e cercar fra l’ortica
o fra le vuote ariste
rose e foglie di rose;

dolce invece sostare
in questi vaghi odori

guardando il focolare
e i fumi di vapori
che con labile volo
escono dal paiuolo.”

domenica 6 maggio 2012


Emergenze della memoria (da non dimenticare)




Yosto Randaccio


Un’ora dolce
a Salvatore Ruju

Non so che cosa sia
ma sento la vita mia
è diventata tutta tenerezza.
Il cuore è senza un grido di terrore,
oggi. Il mare si riposa:
non canta il mio dolore e gli sorrido.
Che giorno di dolcezza!

Allora non dicevo questo. E’ vero.
L’anima in convalescenza
è tutta sogno, tutta trasparenza.
Sente la sensazione anche più fina.
Ci credi? Una mattina
a Fiumicino credevo che il sangue del cuore
mi fosse diventetato tutto nero.

E bene mi rammento ch’era vero.
Malattia, malattia!
Ma son tornato, come te, normale.
Nè ti parlo del mio male
più. Non vedi che sono guarito?
Oggi il mio cuore l’ho tutto addolcito
da tante sensazioni nuove e strane.

Dolcezze, tenerezze alte del cielo!
Oggi ò sognato il timo e l’asfodelo
de le tanche lontane.
Il cielo è senza nuvole ed il mare
bacia la rena e canta e vuol cantare.
Mi sento fresco come un rivo e canto
anch’io come una quercia del tuo bosco.

Oh sono uscito da un abisso fosco
d’incubi e di paure,
fratello, fratello!
O’ fatto paura a te pure,
vero? Ero il terrore muto!
Tu pure ài creduto che uccidessi o m’uccidessi.

Rammento. Quanti mormorii sommessi
quando camminavo solo
col dolore!
Ma come avvenne? Io non avevo mai
cantato ed ecco a tutto quel dolore
cantavo come canta un rosignolo
che muore tra i rosai.

Facevo pena: forse anche atterrivo.
Morivo e non morivo.
Quando passavo v’era anche qualcuno
che udiva il rimbombare d’un martello
sui chiodi di una bara.
Forse la stessa sensazione amara
l’avevi tu pure, fratello!

Ma non ti parlerò di questo male
più. So che tu sai.
Io sono un altro. O’ dentro gli occhi un lampo
di sole. Il campo
è verde. Io vò tra questo vegetare
e penso ancora a te che fosti un rude
lavoratore.

Oh, la gioia delle braccia nude
nel Sole! Camminare sotto il sole,
Lavorare e lavorare e non udire
la noia de l’ore,
sentirsi bagnare la fronte
di molto sudore,
e stanchi cercarsi una fonte.

a mezzo di’, per riposarsi, quando
le cince e le cicale
cantano pazze di sole!
Ora lo so come mi fece male
il veleno di tante parole
scialbe, isteriche, dette a la penombra
di qualche salottino

profumato di muschio, di belzoino,
e pasciuly!
Troppo mi piacque ciò ch’era snervante,
la cipria e il rossetto e l’artefizio
fino delle parole. Sono stato
io pure un damerino verniciato
un seduttore esperto ed elegante.

E poi venne il supplizio.
M’ammalavo senza l’aria!
Ed ora m’han guarito il mare il sole.
Credimi: in Fiumicino
ò ricordato spesso il tuo passato,
tutte le tue parole 
velate di saggezza e di bontà.

Il cuore mio lo sa
come ànno lavorato le tue braccia
ne l’arsura
del monte, de la tanca e de la duna
bianca e deserta lungo la marina.
T’ò invidiato.

Ma ora sono tanto mutato!
Distinguo come te la foglia dalla foglia,
canto da canto, amo gli uccelli e fiori,
e un giorno anch’io li chiamerò fratelli
come tu fai i piccoli lavoratori 
i luridi mendichi.

Io pure so la via
migliore. Oggi, se lungo il sentierolo
di questa prateria
trovo qualcuno che si duole, io pure
avrò quel suo dolore nel mio cuore:
non sarà solo.
Io sono la dolcezza.

Ah sento che la vita mia
è divetata tutta tenerezza.
Non so che cosa sia,
ma il cuore e senza un grido
di terrore. Il mare si riposa:
non canta il mio dolore oggi. Sorrido.


Iosto Carmine Randacio, in arte Yosto Randaccio, nacque a Cagliari nel 1880 e morì a Roma nel 1965. Giovanissimo si trasferì dalla Sardegna alla capitale italiana per iscriversi alla facoltà universitaria di Lettere e Filosofia, durante le lezioni ebbe modo di conoscere poeti come Tito Marrone, Carlo Basilici e Giuseppe Piazza, coi quali instaurò un saldo rapporto di amicizia. Cominciò in quel periodo a scrivere e pubblicare i suoi versi che uscirono anche in riviste famose come "Riviera Ligure" e "La Vita Letteraria". Nel 1909 fu dato alle stampe l'unico suo volume poetico: "Poemetti della convalescenza". 


Opere poetiche

"Poemetti della convalescenza", Tipografia Meloni Aitelli, Cagliari 1909.


Presenze in antologie

"I crepuscolari", a cura di Nino Tripodi, Edizioni del Borghese, Milano 1966 (pp. 385-396).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 399-402).
"I crepuscolari", a cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 325-336).
"Neoidealismo e rinascenza latina tra Ottocento e Novecento", a cura di Angela Ida Villa, LED, Milano 1999 (pp. 772-817).

Per le note bio-bibliografiche si ringrazia leonbizz66.blogspot.it

venerdì 27 aprile 2012


Yehuda Amichai




Notizie sull’autore:

Nato a Wurzburg (Germania) nel 1924, emigra nel 1936 in Palestina con la famiglia. La doppia prospettiva di questa duplicità di patria e di lingua – in quel momento tanto critico sia per l’ebreo sia per il tedesco – costituisce l'argomento del suo romanzo “Non da adesso, non da qui”. Forse questo lo allontana dagli israeliani nati in Israele, ma lo colloca nel gruppo di quella archetipica generazione di immigrati ebrei in Israele, sopravvissuti alla guerra, che portavano con sé tutta l’esperienza accumulata nella diaspora, da rileggere e rivalutare. Yehuda Amichai ha vissuto tutte le vicende della storia del suo popolo, dall’Olocausto alle guerre arabo-israeliane, ha combattuto, si è poi affermato come poeta e brillante intellettuale, presente nella vita culturale del Paese. Nella sua poesia si susseguono incessantemente immagini tratte da una storia esteriore e interiore dell’ebraismo lunga centinaia di anni. Una poesia di grande rigore, un verso penetrante e trasparente, che è riuscita a conquistarsi una sua identità e specificità.

Dal sito di Crocetti Editore



Strada

Un bagliore di automobili in fuga
i miei pensieri riordinava in bianco e nero.

Io che attraverso la strada
solo nei punti consentiti dalla legge,
sono stato invitato all’improvviso
fra le rose.

E come si chiarisce un bruno ramo
nel punto in cui si spezza, così io
nel mio amore
sono chiaro.


Quando la donna amata

Quando la donna amata lo abbandona,
un uomo è invaso dentro da un vuoto
tondo come una grotta
in cui si formeranno stalattiti stupende.
Lentamente, come dentro la Storia
lo spazio vuoto riservato al senso,
allo scopo di tutto, alle lacrime.






Fonti:
http://www.gironi.it/poesia/index.php
http://www.crocettieditore.com/leky_vol_16-20.htm



mercoledì 25 aprile 2012


 Il mendicante di bellezza di Tomaso Kemeny

Il Faggio edizioni









Iniziativa molto importante ieri sera alla casa della poesia di Milano: Tomaso Kemeny ha presentato il libro "Mendicante di bellezza", una eccellente traduzione di alcune liriche del poeta Ungherese Attila József.
Morto suicida a 32 anni Attila József è stato, come lo ha definito Kemeny durante la lettura critica di alcuni testi, uno dei rari poeti prodigiosi che hanno, durante il loro breve passaggio terrestre, lasciato una impronta indelebile nella storia della letteratura mondiale. Riporto di seguito alcune note tratte dal sito della casa editrice Il Faggio:

"La poesia di Attila József ebbe tante interpretazioni – di destra e di sinistra, fu commentata in chiave politica ed in chiave freudiana – ma tutti i suoi commentatori sono unanimi nel riconoscere di trovarsi di fronte a una delle più magistrali e articolate produzioni della letteratura novecentesca.
Questa scelta di poesie contiene sette composizioni scritte tra il 1921 ed il 1925, quando József aveva tra i sedici e i vent’anni. I versi, che leggiamo nella bellissima mediazione del poeta italo-ungherese Tomaso Kemeny, sono opere composte ancora sotto l’influenza evidente di grandi maestri ma già lasciano intuire le caratteristiche più specifiche della poesia di József: la pietà per i poveri e i sofferenti, l’immenso bisogno di essere amato dagli altri, la bravura formale, la ‘morbidezza’ delle immagini.
L’arte pittorica ungherese del primo Novecento si fonda su alcune famose accademie di arti figurative (le scuole di Hollósy, Benczúr e Székely) aperte agli influssi di Weimar e Parigi. I contemporanei di Attila József in parte furono influenzati dall’Espressionismo, in parte svilupparono un Postimpressionismo teso a tematizzare il ritratto e la vita dei contadini magiari della Grande Pianura."

Attila József, sette poesie, testo originale
Tomaso Kemeny, traduzione a fronte
Sette dipinti di pittori ungheresi della prima metà del XX secolo

venerdì 20 aprile 2012

Lars Gustafsson



















Immagine fiabesca 

Quel giorno blu d
autunno sbrigliato
laria un nuovo mare di cristallo,
e sul suo fondo i boschi e i campi,
appena mossi dal vento e inondati di luce.
Ma nel bosco di querce dovera lombra
e le foglie cadevano come monete che
nessuno osa toccare,
allora apparvero a briglia sciolta tre cavalieri.

Della loro meta nulla possiamo dirvi.



(Lars Gustafsson)

martedì 17 aprile 2012



La dolorosa inconsistenza del corpo

di Fabio Prestifilippo


1-Dialogo tra Agostino di Alberto Moravia e Il mare immobile di Valentina Ferri

Il termine inglese environment significa in egual misura ambiente, contesto e condizione; nel nostro caso l’evironment narrativo è il mare, nella fattispecie il soleggiato litorale toscano: Lia di 10 e Agostino di 13 anni con le proprie madri vi trascorrono le vacanze estive, in una apparente quiete alto borghese fatta di bagni nel tardo pomeriggio e di cinema all’aperto. Agostino è un bambino come tanti, colto nel momento del suo transitare lento, ma inesorabile, dalla fanciullezza all’età adulta; qui, tra le pagine di questo romanzo, egli ha ancora i contorni dell’adolescente incompleto.
Sensibile e irrequieta, dotata di un’intelligenza viva e precoce, Lia ama leggere, scrivere e recitare, le piacciono la musica e gli sceneggiati televisivi.
Il nostro mare è lo spazio fisico e temporale nel quale i personaggi si trovano al culmine della loro fanciullezza. In un transito della coscienza tipicamente narcisistico dove la realtà delle cose assume un significato rilevante solo se chiaramente funzionale. Da qui l’incapacità di essere permeabili alla bellezza, segno di un turbamento che è ancora in sordina ma che progressivamente si configurerà come nuova voce dell’io.

Ci si va un giorno sì e uno no: borsa frigo con acqua panini e frutta, bicchieri e tovaglioli di carta e poi via verso la città. Costeggiando le montagne cave di marmo […] Arrivate a Lucca la mamma ogni volta ci fa notare come sono belle le mura ancora intatte, com’è tenuto bene il prato intorno alla città. Poi si prende la strada per Focette, e arrivate lì finalmente via verso la spiaggia. (Il mare immobile)

Finito il bagno, risalivano sul pattino e la madre guardando intorno al mare calmo e luminoso diceva: “Come è bello, nevvero?” Agostino non rispondeva perché sentiva che il godimento di quella bellezza del mare e del cielo, egli lo doveva soprattutto all’intimità profonda in cui erano immersi i suoi rapporti con la madre. (Agostino)

Il mare come la loro sorte morale è destinato a subire un’avanzante trasfigurazione: da luogo ameno della fanciullezza a distesa abbacinante di dolore e rivelazione.
Non essendo esplicita l’intenzione (fortunatamente non lo è mai!) è azzardato dare un termine retorico fisso al luogo della narrazione, altresì credo che all’andamento lineare moraviano e alla turbolenza narrativa di Valentina Ferri il mare sia necessario. Certo non è rischioso pensare che un buon impianto scenografico, quando segue le dinamiche psicologiche dei personaggi e ne diventa in larga misura rappresentazione e simbolo, possa compiere una sorta di miracolo artistico: la metamorfosi da palcoscenico degli eventi a entità fisica e morale; non intenzionale come per il correlativo oggettivo ma in ogni modo “accidentalmente”  indispensabile.

Ho sognato che facevo il bagno nel mare. L’acqua era coperta da una pellicola trasparente, come la plastica che si usa in cucina. Cercavo di mettere la testa sotto, ma quella pellicola mi restava incollata come una maschera. Non riuscivo a respirare. Allora facevo un taglio con le unghie e con i denti e sulla superficie si apriva una fessura. Tentavo di infilare il naso e la bocca in quella ferita, per sentire l’acqua sul viso, per trovare qualcosa che si muovesse. Ero ferma, intrappolata in un mare immobile. (Il mare immobile)
L’investirono subito la bianca vampa, il silenzioso fervore del solleone. In fondo alla strada, in un’aria tremolante e remota, il mare scintillante ed immobile. All’estremità opposta la pineta inclinava i rossi tronchi sotto le masse verdi e afose dei rotondi fogliami.

Il mare è lo spazio infinito, è l’orizzonte senza terra dove la loro pesante gravità di adolescenti in erba nasce, si alleggerisce e diventa improvvisamente confessione ed urlo.

Egli sentiva tutto il suo antico animo ribellarsi a quella immobilità e tirarlo indietro; ma quello nuovo, ancora timido eppure già forte,lo costringeva a fissare spietatamente gli occhi riluttante là dove il giorno prima non avrebbe osato levarli. (Agostino)
Da oggi non parlerò più. Diventerò ancora più grande, lascerò che mi crescano i seni e i peli e diventerò come tutte le donne e come tutte starà zitta, sarò torbida e crudele e piena di segreti. Ma prima di tacere devo tirare fuori quell’urlo. (Il Mare immobile)

2- Lia ed Agostino sono personaggi caratterizzati da peculiarità carenti: estremamente magri, fragili, inappetenti, indifesi. Sembrano crisalidi chiuse nell’involucro della loro resistente fanciullezza. L’occasione che li renderà presenti al loro stato e che produrrà il primo strappo sarà la scoperta dell’effimera idealità del mito materno. Per Lia questo è chiaro sin dai primi movimenti narrativi quando, gelosa della Giulianina, accudita e aiutata da tutti , si sente trascurata e sola; per Agostino la rivelazione si presenta nelle spoglie di un giovane che tenta – con successo -  di intrecciare con la madre una relazione sentimentale. Stupisce in ogni modo come Lia rimanga per tutto il corso della vicenda, anche quando l’allontanamento dal topoi materno raggiunge un livello parossistico palese, strenuamente avvinta all’immagine della madre come figura affettiva iperuranica.

Mi sentivo felice, finalmente noi con la mamma, fuori di sera. La mamma è molto bella, lo dicono tutti, ha i capelli neri e folti.[…] Mi piace annusarla, a lei invece dà fastidio. La mamma non mi bacia mai. Io invece la bacerei di continuo, se non fosse che ormai sono troppo grande e che a lei i baci proprio non piacciono. (Il mare immobile)
E’ in quel momento che io sento che il coraggio forse mi è venuto, che non ho bisogno di nessun elisir per dirle tutto, che lei non mi deve dire grazie che noi due siamo insieme invincibili e che io mentre le stringo la mano sto tornando a essere vera perché si è rotto l’incantesimo, saranno le lucciole le fate gli stornelli dei grilli ma il cuore mi batte forte forte ed è per la gioia. (Il mare immobile)

Cercando un motivo sostanziale per alterare la figura della madre, da elemento amoroso a donna connotabile sessualmente, è più difficile riscontrare questa dualità affettiva in Agostino. L’intenzionalità svolge una funzione di iniziale allontanamento e conclusiva riunione, per cui la vera maturazione sarà solo uno slancio temporaneo nella coscienza del nostro protagonista, un tentativo debole di dar voce all’offesa ricevuta.

Forse per il risentimento di essere stato tratto in inganno e di averla creduta così diversa da quella che era nella realtà; forse perché, non avendo potuto amarla senza difficoltà ed offesa, preferiva non amarla affatto e non vedere più in lei che una donna. (Agostino)

Per Lia ogni occasione è potenziale per ricaricare la spinta di un amore che sembra irrecuperabile o per soffiare sul fuoco di un odio sempre acceso. Lia ha già maturato nei confronti della madre una contrattura costantemente predisposta a palesarsi con violenza schizzofrenica.
Puttana.
Puttana, come dice papà di certe donne.
Ora anche la mamma è una puttana. (Il mare immobile)

 In questo senso  le storie posseggono un ritmo narrativo del tutto differente:  il ritmo Moraviano mantiene una linearità temporale continuativa; Lia si muove tra spazi transitori, tra continue analessi e sbalzi nel presente.

3- Il corpo di Lia è estraneo a se stessa: l’inappetenza, la vergogna delle forme, la sensazione di morte rendono con cognizione di causa la nostra eroina del tutto simile alle altre adolescenti. E’ il caso di dire che, a differenza di Agostino, il corpo di Lia è un io-corpo. La dialettica tra le due entità è per natura generatrice di ansie e paure. Nel chiuso della sua stanza da bambina Lia sperimenta il solo e segreto godimento che il copro può darle: strofinandosi la coperta tra le gambe prova un piacere che la calma, che in  una dimensione altra produce una pacificazione tra l’io-corpo e la microsocietà del suo nucleo famigliare. 

Ho preso il giornale e l’ho portato in camera: poi come faccio di sera per addormentarmi ho preso la coperta e l’ho strofinata tra le gambe. Ho pensato che mi andrebbe che Giuliano mi facesse le stesse cose di quella della foto,e  che io direi no no non voglio e lui mi ascolterebbe perché capirebbe che mi piace, alla fine. Dopo un po’ di avanti e indietro mi è sembrato che scoppiasse qualcosa, mi è mancato il fiato e ho stretto ancora più forte perché quel calduccio tra le gambe non smettesse. Poi mi sono sentita molle, e contenta. Dopo la copertina mi sono passate anche le paure di morire. (Il mare immobile)

La definizione io-corpo è calzante: Lia usa la propria fisicità come schermo di difesa, come strumento di piacere, come merce di scambio d’amore. La sua esile figura che non prova appetito per il cibo e la vita diventa l’atto di accusa verso una madre problematica ed assente; la tendenza ad odiare i propri seni acerbi è rifiuto del cambiamento, è implicito bisogno d’essere ancora una bambina in attesa dell’affetto e della protezione famigliare e l’iniziale sottomissione all’uomo che la coprirà di attenzioni e alle quali lei accondiscende è paura di perdere l’unico vero, sebbene deviante, legame affettivo.

Poi quando finiva tutto lui diceva vado a lavarmi le mani, tu vestiti. Era piuttosto un ordine, e difatti quando parlava così gli veniva una voce bassa bassa, e io avevo paura di averlo fatto arrabbiare per qualcosa, e che non mi amava più. E io ci tenevo tanto a sentirmi la sua fidanzatina segreta, perché avevo un bisogno grande di amore[…] (Il mare immobile)

In Agostino il corpo non assorbe nessun cambiamento perché è nella crisi introspettiva che si genera e si conclude la sua vicenda. Non ci sono reazione fisiologiche che possano farci pensare ad evoluzione di tipo sessuale -  Agostino, anche quando l’acredine cresce,  è pur sempre cedevole alle carezze della madre – la decisione infelice di rivolgersi a prostitute non nasce dalla curiosità del sesso, fisicamente inteso, ma solo come forma di riscatto e di perentorio allontanamento.
[…] nello sforzo di restare obbiettivo e sereno, avrebbe voluto provare un sentimento di comprensione per il giovane e di indifferenza per sua madre. (Agostino)

Gli pareva che soltanto in questo modo sarebbe finalmente riuscito a liberarsi dalle ossessioni di cui aveva tanto sofferto in quei giorni d’estate. Conoscere una di quelle donne, pensava oscuramente, voleva dire sfatare per sempre la calunnia dei ragazzi; e nello stesso tempo tagliare definitivamente il sottile legame di sensualità sviata e torbida che si era creato tra lui e sua madre. (Agostino)

La fisicità di Agostino non è un io-corpo,  o quantomeno non lo è ancora completamente. Agostino non si masturba, il piacere non lo attraversa mai nelle viscere; quello di  Agostino è un corpo che non desidera. Si fatica a considerarlo al di fuori di un contesto prettamente borghese: lui è bello, filiforme e fragile, quasi etereo. Sarà la banda dei reietti capitanata dal Saro, marinaio con sei dita per mano e incline ad una sessualità deviata, a renderlo presente ai propri ingombri terrestri; saranno la violenza delle botte, l’incapacità di difendersi, le prove di forza, la sigaretta spenta nella mano, le carezze del Saro a  mutare il suo corpo da pura inconsistenza a termine di paragone sociale. La violenza plebea è per il nostro eroe una rivelazione che investe completamente un  mondo del tutto anonimo.

I ragazzi invece parevano gioiosi di mettersi nudi e si strappavano i panni urtandosi e interpellandosi scherzosamente. Erano, contro lo sfondo delle canne verdi, in parte bruni e in parte bianchi, di una bianchezza squallida e villosa, dall’inguine fino alla pancia; e questa bianchezza rivelava nei loro corpi quel non so che di storto, di sgraziato e di eccessivamente muscolo che è proprio della gente che fatica manualmente. (Agostino)

Mentre Lia sperimenta Agostino razionalizza, mentre il sesso per Lia è una nuova forma di intimità con se stessa, sebbene deviata dalle tensioni di un rapporto anormale e violento, per Agostino rimane nel novero delle fantasie, nella sua adolescenziale incompletezza, nel rozzo spettacolo dei ragazzacci che si rotolano nella polvere avvinghiandosi.
Il finale è di pura eccellenza letteraria. Lia ed Agostino abbandonano la scena della narrazione in modo magistrale: Lia con un urlo progressivo, Agostino con una riflessione che sembra una lenta dissolvenza nel buio della notte. Allora cosa accomuna un urlo e un abbandono? Per Lia ed Agostino che hanno vissuto sospesi in una realtà dai contorni sfumati, una realtà imprendibile, evanescente, ricettacolo del loro male di vivere, la dissolvenza e l’urlo sono il ritorno, nella veste dei vinti, alla loro condizione iniziale; quando ancora non speravano.

La madre rise e gli accarezzò una guancia. “Ebbene, d’ora in poi ti tratterò come un uomo… va bene così? E ora dormi… è molto tardi.” Ella si chinò e lo baciò. Spense il lume, Agostino la sentì coricarsi nel letto. Come un uomo, non poté fare a meno di pensare prima di addormentarsi. Ma non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse. (Agostino)
Penso alla Mila di Codra che brucia e l’urlo arriva subito. Ma non è un urlo di dolore, non sento male da nessuna parte. Io urlo di spavento di paura, metto una a nel grido e la a si allunga poi si allarga e infine diventa roca, uno strillo di animale che si spegna in gola, con un colpo secco. (Il mare immobile)