venerdì 27 aprile 2012


Yehuda Amichai




Notizie sull’autore:

Nato a Wurzburg (Germania) nel 1924, emigra nel 1936 in Palestina con la famiglia. La doppia prospettiva di questa duplicità di patria e di lingua – in quel momento tanto critico sia per l’ebreo sia per il tedesco – costituisce l'argomento del suo romanzo “Non da adesso, non da qui”. Forse questo lo allontana dagli israeliani nati in Israele, ma lo colloca nel gruppo di quella archetipica generazione di immigrati ebrei in Israele, sopravvissuti alla guerra, che portavano con sé tutta l’esperienza accumulata nella diaspora, da rileggere e rivalutare. Yehuda Amichai ha vissuto tutte le vicende della storia del suo popolo, dall’Olocausto alle guerre arabo-israeliane, ha combattuto, si è poi affermato come poeta e brillante intellettuale, presente nella vita culturale del Paese. Nella sua poesia si susseguono incessantemente immagini tratte da una storia esteriore e interiore dell’ebraismo lunga centinaia di anni. Una poesia di grande rigore, un verso penetrante e trasparente, che è riuscita a conquistarsi una sua identità e specificità.

Dal sito di Crocetti Editore



Strada

Un bagliore di automobili in fuga
i miei pensieri riordinava in bianco e nero.

Io che attraverso la strada
solo nei punti consentiti dalla legge,
sono stato invitato all’improvviso
fra le rose.

E come si chiarisce un bruno ramo
nel punto in cui si spezza, così io
nel mio amore
sono chiaro.


Quando la donna amata

Quando la donna amata lo abbandona,
un uomo è invaso dentro da un vuoto
tondo come una grotta
in cui si formeranno stalattiti stupende.
Lentamente, come dentro la Storia
lo spazio vuoto riservato al senso,
allo scopo di tutto, alle lacrime.






Fonti:
http://www.gironi.it/poesia/index.php
http://www.crocettieditore.com/leky_vol_16-20.htm



mercoledì 25 aprile 2012


 Il mendicante di bellezza di Tomaso Kemeny

Il Faggio edizioni









Iniziativa molto importante ieri sera alla casa della poesia di Milano: Tomaso Kemeny ha presentato il libro "Mendicante di bellezza", una eccellente traduzione di alcune liriche del poeta Ungherese Attila József.
Morto suicida a 32 anni Attila József è stato, come lo ha definito Kemeny durante la lettura critica di alcuni testi, uno dei rari poeti prodigiosi che hanno, durante il loro breve passaggio terrestre, lasciato una impronta indelebile nella storia della letteratura mondiale. Riporto di seguito alcune note tratte dal sito della casa editrice Il Faggio:

"La poesia di Attila József ebbe tante interpretazioni – di destra e di sinistra, fu commentata in chiave politica ed in chiave freudiana – ma tutti i suoi commentatori sono unanimi nel riconoscere di trovarsi di fronte a una delle più magistrali e articolate produzioni della letteratura novecentesca.
Questa scelta di poesie contiene sette composizioni scritte tra il 1921 ed il 1925, quando József aveva tra i sedici e i vent’anni. I versi, che leggiamo nella bellissima mediazione del poeta italo-ungherese Tomaso Kemeny, sono opere composte ancora sotto l’influenza evidente di grandi maestri ma già lasciano intuire le caratteristiche più specifiche della poesia di József: la pietà per i poveri e i sofferenti, l’immenso bisogno di essere amato dagli altri, la bravura formale, la ‘morbidezza’ delle immagini.
L’arte pittorica ungherese del primo Novecento si fonda su alcune famose accademie di arti figurative (le scuole di Hollósy, Benczúr e Székely) aperte agli influssi di Weimar e Parigi. I contemporanei di Attila József in parte furono influenzati dall’Espressionismo, in parte svilupparono un Postimpressionismo teso a tematizzare il ritratto e la vita dei contadini magiari della Grande Pianura."

Attila József, sette poesie, testo originale
Tomaso Kemeny, traduzione a fronte
Sette dipinti di pittori ungheresi della prima metà del XX secolo

venerdì 20 aprile 2012

Lars Gustafsson



















Immagine fiabesca 

Quel giorno blu d
autunno sbrigliato
laria un nuovo mare di cristallo,
e sul suo fondo i boschi e i campi,
appena mossi dal vento e inondati di luce.
Ma nel bosco di querce dovera lombra
e le foglie cadevano come monete che
nessuno osa toccare,
allora apparvero a briglia sciolta tre cavalieri.

Della loro meta nulla possiamo dirvi.



(Lars Gustafsson)

martedì 17 aprile 2012



La dolorosa inconsistenza del corpo

di Fabio Prestifilippo


1-Dialogo tra Agostino di Alberto Moravia e Il mare immobile di Valentina Ferri

Il termine inglese environment significa in egual misura ambiente, contesto e condizione; nel nostro caso l’evironment narrativo è il mare, nella fattispecie il soleggiato litorale toscano: Lia di 10 e Agostino di 13 anni con le proprie madri vi trascorrono le vacanze estive, in una apparente quiete alto borghese fatta di bagni nel tardo pomeriggio e di cinema all’aperto. Agostino è un bambino come tanti, colto nel momento del suo transitare lento, ma inesorabile, dalla fanciullezza all’età adulta; qui, tra le pagine di questo romanzo, egli ha ancora i contorni dell’adolescente incompleto.
Sensibile e irrequieta, dotata di un’intelligenza viva e precoce, Lia ama leggere, scrivere e recitare, le piacciono la musica e gli sceneggiati televisivi.
Il nostro mare è lo spazio fisico e temporale nel quale i personaggi si trovano al culmine della loro fanciullezza. In un transito della coscienza tipicamente narcisistico dove la realtà delle cose assume un significato rilevante solo se chiaramente funzionale. Da qui l’incapacità di essere permeabili alla bellezza, segno di un turbamento che è ancora in sordina ma che progressivamente si configurerà come nuova voce dell’io.

Ci si va un giorno sì e uno no: borsa frigo con acqua panini e frutta, bicchieri e tovaglioli di carta e poi via verso la città. Costeggiando le montagne cave di marmo […] Arrivate a Lucca la mamma ogni volta ci fa notare come sono belle le mura ancora intatte, com’è tenuto bene il prato intorno alla città. Poi si prende la strada per Focette, e arrivate lì finalmente via verso la spiaggia. (Il mare immobile)

Finito il bagno, risalivano sul pattino e la madre guardando intorno al mare calmo e luminoso diceva: “Come è bello, nevvero?” Agostino non rispondeva perché sentiva che il godimento di quella bellezza del mare e del cielo, egli lo doveva soprattutto all’intimità profonda in cui erano immersi i suoi rapporti con la madre. (Agostino)

Il mare come la loro sorte morale è destinato a subire un’avanzante trasfigurazione: da luogo ameno della fanciullezza a distesa abbacinante di dolore e rivelazione.
Non essendo esplicita l’intenzione (fortunatamente non lo è mai!) è azzardato dare un termine retorico fisso al luogo della narrazione, altresì credo che all’andamento lineare moraviano e alla turbolenza narrativa di Valentina Ferri il mare sia necessario. Certo non è rischioso pensare che un buon impianto scenografico, quando segue le dinamiche psicologiche dei personaggi e ne diventa in larga misura rappresentazione e simbolo, possa compiere una sorta di miracolo artistico: la metamorfosi da palcoscenico degli eventi a entità fisica e morale; non intenzionale come per il correlativo oggettivo ma in ogni modo “accidentalmente”  indispensabile.

Ho sognato che facevo il bagno nel mare. L’acqua era coperta da una pellicola trasparente, come la plastica che si usa in cucina. Cercavo di mettere la testa sotto, ma quella pellicola mi restava incollata come una maschera. Non riuscivo a respirare. Allora facevo un taglio con le unghie e con i denti e sulla superficie si apriva una fessura. Tentavo di infilare il naso e la bocca in quella ferita, per sentire l’acqua sul viso, per trovare qualcosa che si muovesse. Ero ferma, intrappolata in un mare immobile. (Il mare immobile)
L’investirono subito la bianca vampa, il silenzioso fervore del solleone. In fondo alla strada, in un’aria tremolante e remota, il mare scintillante ed immobile. All’estremità opposta la pineta inclinava i rossi tronchi sotto le masse verdi e afose dei rotondi fogliami.

Il mare è lo spazio infinito, è l’orizzonte senza terra dove la loro pesante gravità di adolescenti in erba nasce, si alleggerisce e diventa improvvisamente confessione ed urlo.

Egli sentiva tutto il suo antico animo ribellarsi a quella immobilità e tirarlo indietro; ma quello nuovo, ancora timido eppure già forte,lo costringeva a fissare spietatamente gli occhi riluttante là dove il giorno prima non avrebbe osato levarli. (Agostino)
Da oggi non parlerò più. Diventerò ancora più grande, lascerò che mi crescano i seni e i peli e diventerò come tutte le donne e come tutte starà zitta, sarò torbida e crudele e piena di segreti. Ma prima di tacere devo tirare fuori quell’urlo. (Il Mare immobile)

2- Lia ed Agostino sono personaggi caratterizzati da peculiarità carenti: estremamente magri, fragili, inappetenti, indifesi. Sembrano crisalidi chiuse nell’involucro della loro resistente fanciullezza. L’occasione che li renderà presenti al loro stato e che produrrà il primo strappo sarà la scoperta dell’effimera idealità del mito materno. Per Lia questo è chiaro sin dai primi movimenti narrativi quando, gelosa della Giulianina, accudita e aiutata da tutti , si sente trascurata e sola; per Agostino la rivelazione si presenta nelle spoglie di un giovane che tenta – con successo -  di intrecciare con la madre una relazione sentimentale. Stupisce in ogni modo come Lia rimanga per tutto il corso della vicenda, anche quando l’allontanamento dal topoi materno raggiunge un livello parossistico palese, strenuamente avvinta all’immagine della madre come figura affettiva iperuranica.

Mi sentivo felice, finalmente noi con la mamma, fuori di sera. La mamma è molto bella, lo dicono tutti, ha i capelli neri e folti.[…] Mi piace annusarla, a lei invece dà fastidio. La mamma non mi bacia mai. Io invece la bacerei di continuo, se non fosse che ormai sono troppo grande e che a lei i baci proprio non piacciono. (Il mare immobile)
E’ in quel momento che io sento che il coraggio forse mi è venuto, che non ho bisogno di nessun elisir per dirle tutto, che lei non mi deve dire grazie che noi due siamo insieme invincibili e che io mentre le stringo la mano sto tornando a essere vera perché si è rotto l’incantesimo, saranno le lucciole le fate gli stornelli dei grilli ma il cuore mi batte forte forte ed è per la gioia. (Il mare immobile)

Cercando un motivo sostanziale per alterare la figura della madre, da elemento amoroso a donna connotabile sessualmente, è più difficile riscontrare questa dualità affettiva in Agostino. L’intenzionalità svolge una funzione di iniziale allontanamento e conclusiva riunione, per cui la vera maturazione sarà solo uno slancio temporaneo nella coscienza del nostro protagonista, un tentativo debole di dar voce all’offesa ricevuta.

Forse per il risentimento di essere stato tratto in inganno e di averla creduta così diversa da quella che era nella realtà; forse perché, non avendo potuto amarla senza difficoltà ed offesa, preferiva non amarla affatto e non vedere più in lei che una donna. (Agostino)

Per Lia ogni occasione è potenziale per ricaricare la spinta di un amore che sembra irrecuperabile o per soffiare sul fuoco di un odio sempre acceso. Lia ha già maturato nei confronti della madre una contrattura costantemente predisposta a palesarsi con violenza schizzofrenica.
Puttana.
Puttana, come dice papà di certe donne.
Ora anche la mamma è una puttana. (Il mare immobile)

 In questo senso  le storie posseggono un ritmo narrativo del tutto differente:  il ritmo Moraviano mantiene una linearità temporale continuativa; Lia si muove tra spazi transitori, tra continue analessi e sbalzi nel presente.

3- Il corpo di Lia è estraneo a se stessa: l’inappetenza, la vergogna delle forme, la sensazione di morte rendono con cognizione di causa la nostra eroina del tutto simile alle altre adolescenti. E’ il caso di dire che, a differenza di Agostino, il corpo di Lia è un io-corpo. La dialettica tra le due entità è per natura generatrice di ansie e paure. Nel chiuso della sua stanza da bambina Lia sperimenta il solo e segreto godimento che il copro può darle: strofinandosi la coperta tra le gambe prova un piacere che la calma, che in  una dimensione altra produce una pacificazione tra l’io-corpo e la microsocietà del suo nucleo famigliare. 

Ho preso il giornale e l’ho portato in camera: poi come faccio di sera per addormentarmi ho preso la coperta e l’ho strofinata tra le gambe. Ho pensato che mi andrebbe che Giuliano mi facesse le stesse cose di quella della foto,e  che io direi no no non voglio e lui mi ascolterebbe perché capirebbe che mi piace, alla fine. Dopo un po’ di avanti e indietro mi è sembrato che scoppiasse qualcosa, mi è mancato il fiato e ho stretto ancora più forte perché quel calduccio tra le gambe non smettesse. Poi mi sono sentita molle, e contenta. Dopo la copertina mi sono passate anche le paure di morire. (Il mare immobile)

La definizione io-corpo è calzante: Lia usa la propria fisicità come schermo di difesa, come strumento di piacere, come merce di scambio d’amore. La sua esile figura che non prova appetito per il cibo e la vita diventa l’atto di accusa verso una madre problematica ed assente; la tendenza ad odiare i propri seni acerbi è rifiuto del cambiamento, è implicito bisogno d’essere ancora una bambina in attesa dell’affetto e della protezione famigliare e l’iniziale sottomissione all’uomo che la coprirà di attenzioni e alle quali lei accondiscende è paura di perdere l’unico vero, sebbene deviante, legame affettivo.

Poi quando finiva tutto lui diceva vado a lavarmi le mani, tu vestiti. Era piuttosto un ordine, e difatti quando parlava così gli veniva una voce bassa bassa, e io avevo paura di averlo fatto arrabbiare per qualcosa, e che non mi amava più. E io ci tenevo tanto a sentirmi la sua fidanzatina segreta, perché avevo un bisogno grande di amore[…] (Il mare immobile)

In Agostino il corpo non assorbe nessun cambiamento perché è nella crisi introspettiva che si genera e si conclude la sua vicenda. Non ci sono reazione fisiologiche che possano farci pensare ad evoluzione di tipo sessuale -  Agostino, anche quando l’acredine cresce,  è pur sempre cedevole alle carezze della madre – la decisione infelice di rivolgersi a prostitute non nasce dalla curiosità del sesso, fisicamente inteso, ma solo come forma di riscatto e di perentorio allontanamento.
[…] nello sforzo di restare obbiettivo e sereno, avrebbe voluto provare un sentimento di comprensione per il giovane e di indifferenza per sua madre. (Agostino)

Gli pareva che soltanto in questo modo sarebbe finalmente riuscito a liberarsi dalle ossessioni di cui aveva tanto sofferto in quei giorni d’estate. Conoscere una di quelle donne, pensava oscuramente, voleva dire sfatare per sempre la calunnia dei ragazzi; e nello stesso tempo tagliare definitivamente il sottile legame di sensualità sviata e torbida che si era creato tra lui e sua madre. (Agostino)

La fisicità di Agostino non è un io-corpo,  o quantomeno non lo è ancora completamente. Agostino non si masturba, il piacere non lo attraversa mai nelle viscere; quello di  Agostino è un corpo che non desidera. Si fatica a considerarlo al di fuori di un contesto prettamente borghese: lui è bello, filiforme e fragile, quasi etereo. Sarà la banda dei reietti capitanata dal Saro, marinaio con sei dita per mano e incline ad una sessualità deviata, a renderlo presente ai propri ingombri terrestri; saranno la violenza delle botte, l’incapacità di difendersi, le prove di forza, la sigaretta spenta nella mano, le carezze del Saro a  mutare il suo corpo da pura inconsistenza a termine di paragone sociale. La violenza plebea è per il nostro eroe una rivelazione che investe completamente un  mondo del tutto anonimo.

I ragazzi invece parevano gioiosi di mettersi nudi e si strappavano i panni urtandosi e interpellandosi scherzosamente. Erano, contro lo sfondo delle canne verdi, in parte bruni e in parte bianchi, di una bianchezza squallida e villosa, dall’inguine fino alla pancia; e questa bianchezza rivelava nei loro corpi quel non so che di storto, di sgraziato e di eccessivamente muscolo che è proprio della gente che fatica manualmente. (Agostino)

Mentre Lia sperimenta Agostino razionalizza, mentre il sesso per Lia è una nuova forma di intimità con se stessa, sebbene deviata dalle tensioni di un rapporto anormale e violento, per Agostino rimane nel novero delle fantasie, nella sua adolescenziale incompletezza, nel rozzo spettacolo dei ragazzacci che si rotolano nella polvere avvinghiandosi.
Il finale è di pura eccellenza letteraria. Lia ed Agostino abbandonano la scena della narrazione in modo magistrale: Lia con un urlo progressivo, Agostino con una riflessione che sembra una lenta dissolvenza nel buio della notte. Allora cosa accomuna un urlo e un abbandono? Per Lia ed Agostino che hanno vissuto sospesi in una realtà dai contorni sfumati, una realtà imprendibile, evanescente, ricettacolo del loro male di vivere, la dissolvenza e l’urlo sono il ritorno, nella veste dei vinti, alla loro condizione iniziale; quando ancora non speravano.

La madre rise e gli accarezzò una guancia. “Ebbene, d’ora in poi ti tratterò come un uomo… va bene così? E ora dormi… è molto tardi.” Ella si chinò e lo baciò. Spense il lume, Agostino la sentì coricarsi nel letto. Come un uomo, non poté fare a meno di pensare prima di addormentarsi. Ma non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse. (Agostino)
Penso alla Mila di Codra che brucia e l’urlo arriva subito. Ma non è un urlo di dolore, non sento male da nessuna parte. Io urlo di spavento di paura, metto una a nel grido e la a si allunga poi si allarga e infine diventa roca, uno strillo di animale che si spegna in gola, con un colpo secco. (Il mare immobile)






domenica 8 aprile 2012





Rosso Malpelo e la pedagogia della crudeltà 
di Fabio Prestifilippo

Il Verga della novella Rosso Malpelo non esiste come narratore interno alla storia, esso assume la voce corale di una moltitudine di personaggi; i popolani Siciliani. Per il lettore che si propone di approfondire le istanze morali di chi scrive è difficile definire le qualifiche di un ipotetico autore implicito. Vi è la nota presenza di un collage di voci e di interventi che designano una moralità eterogenea. Fra gli strumenti utilizzati dal Verga per raggiungere lo scopo il canone dell’impersonalità ha un ruolo di spicco, esso prevede la presenza-assenza di un narratore che non è mai rintracciabile come figura onnisciente nel testo. Per raggiungere un tale stato di lontananza Verga utilizza un registro narrativo comunemente usato dai narratori veristi:il discorso indiretto libero. Avvalendosi delle parole del Grosser possiamo definire il discorso indiretto libero come : “un resoconto di pensieri e parole di un personaggio non introdotti da verbi del dire o del pensare. E si ricordi che il resoconto comporta che le parole e i pensieri dei personaggi siano riportati con la mediazione del narratore.”
Un’alternativa importante al discorso indiretto libero, che viene ripetutamente utilizzata nella novella di Malpelo, è il discorso diretto libero. Un possibilità significativa laddove il Verga cerca di focalizzare ulteriormente l’attenzione sul mondo interiore di chi parla.

Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come un bestia davvero.
- To’!- disse infine uno. – E’ malpelo! Di dove è saltatati fuori, adesso?
- Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia…-

Un narratore quindi difficilmente rintracciabile che a volte si affaccia nella storia per lasciare un segno appena tangibile. Ma non è nelle singole affermazioni dei protagonisti che dobbiamo cercare il sunto della poeticità Verghiana, bensì nel respiro più ampio del racconto preso nella sua complessità. L’antifrasi come elemento cardine della struttura del racconto ne è una prova reale. Le affermazioni fatte a volte sono confutate dal pensiero effettivo. Se esistesse un autore implicito individuabile probabilmente il lettore sarebbe portato a pensare che quest’ultimo considera Malpelo una sorta di bestiale individuo privo di un qualsiasi barlume di coscienza. In verità coloro che appaiono come i veri carnefici sono i personaggi secondari. I compagni di lavoro che lo pestano brutalmente, la sorella che lo “rinnega” per la sua selvatica presenza. Apparentemente il metro morale dell’autore non sembra esistere, la coralità delle voci determina un ambiente etico multiforme .Malpelo viene giudicato dalla massa come una sorta di bestia relativamente pensante.

un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, che tutti schivavano come un cane rognoso, e lo accarezzavano con i piedi”, ”egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi un po’ di pane bigio come fanno le bestie sue pari”, si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero”, “e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro” .

Se ci atteniamo al giudizio della gente ne consegue che Malpelo è un reietto più vicino agli istinti che alla ragione, ma come sostenevo prima, analizzando in profondità le motivazioni che scatenano la violenza di certe reazioni è possibile comprendere che la sua ferocia è la derivante di un disagio sociale.
Da ciò ne consegue che il narratore esterno è una sorta di burattinaio che manovra il pensiero e le azioni di più personaggi per raggiungere lo scopo d’essere moralmente presente nella totalità della storia. Esso c’è sempre ma è nascosto. Nell’ipotizzare una critica alla novella Reverendo il Grosser sostiene che il narratore si presenta come un personaggio (individuale/collettivo) inserito nel mondo sociale che descrive, in grado di accedere a ogni pettegolezzo. Un presupposto valido anche per Malpelo dove l’autore è interamente mimetizzato poiché immerso in ogni singola presenza. Se quindi il narratore è poco rivelato, si dice che la distanza tra il lettore e gli eventi diminuisce, e che si ha una narrazione mimetica. In presenza di una definizione tale è possibile infine sostenere che il pensiero effettivo, nel nostro caso, dia voce ad ogni personaggio, ma non in parti uguali. Gli stessi personaggi che sembrano assolvere alla funzione di elementi fuorvianti, che attraverso la loro “voce” si allontanano dal pensiero effettivo, sono paradossalmente utili al fine di scoprirlo oggettivamente. Se il lettore scopre il narratore, se è in grado attraverso una sommatoria di voci differenti di desumerne il portato morale allora sembra in parte fallire il presupposto operativo della narrazione mimetica, che vuole un racconto puramente oggettivo. Ma non è possibile ottenere una vera e propria mimesi (scomparsa del narratore) se non nel racconto di parole, cioè nella pura e semplice registrazione di parole pronunciate dai personaggi, senza didascalie, senza descrizioni di gesti o azioni dei medesimi(cit).

- La cava come luogo di rifugio-

La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra.

Lo spazio fisico nel quale si snoda la storia possiede a mio avviso un’ambivalenza significativa. Gli avvenimenti raccontati si svolgono principalmente in due luoghi cardine, la cava nella quale Malpelo lavora come manovale e i luoghi all’aperto dove il protagonista consuma la sua difficile esistenza sociale. E’ noto da subito come l’influsso della voce psicologica di Malpelo influisca sulla visione complessiva del mondo fisico circostante. Il personaggio principale considera la cava come il luogo che gli è più congegnale, lo spazio dove il destino ha collocato i reietti. E’ pur vero che Malpelo sogna un ambiente di lavoro diverso, una professione che gli permetta il godimento pieno della natura ma con la stessa forza con cui favoleggia l’alternativa esso è convinto dell’ineluttabilità del suo destino.

Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena, o il carrettiere come compare Gaspare…[…] Ma quello era il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui.

La cava di Malpelo, come la chiama la gente è in definitiva la vera casa del nostro eroe, il luogo dove esso consuma la sua vita sociale e lavorativa, il luogo dei soprusi e delle tragedie ma anche lo spazio dove Malpelo gode dell’affetto del padre e dell’originale amicizia con Ranocchio. Malpelo “era sempre stato là da bambino e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sottoterra, dove il padre soleva condurlo per mano”. L’esterno è solo il territorio dell’emarginazione, esso è l’estensione e la cagione principale del male esistenziale di Malpelo. Fuori dalla cava e lontano dalla microsocietà dei soprusi esso si muove fra la gente comune alla stregua di un cane randagio che per l’esperienza in percosse scappa non appena percepisce l’immediata vicinanza delle altre persone. A casa lo aspetta la freddezza della madre e la violenza della sorella che “gli faceva la ricevuta a scapaccioni”. Anche all’interno della cava Malpelo è visto come una sorta di “diavolaccio pestifero”, eppure qui si muove senza impaccio; l’esperienza acquisita in anni di angherie generi in lui una negativa ma consapevole visione della vita. Opprimente e angosciosa è quindi sia la casa natale che la cava, quest’ultima però per il nostro protagonista è lo stambugio dentro il quale schermarsi dalla sua condizione di ragazzo al margine della società. A tutti gli effetti la porzione maggiore di vita Malpelo la passa a zappare la sabbia ed è lì che esso raccoglie i calci dei manovali e le carezze del padre è lì che bastona violentemente il mulo perché salga con più solerzia e picchia Ranocchio per insegnargli le “regole” della vita; il buio del budello terroso è tutto ciò che Malpelo possiede e ne esce “solo perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana”. Le tenebre e la disperata solitudine della cava scalfite solo dalla luce fioca delle lanterne acquisiscono un aspetto quasi poetico se viste come il rifugio dove il nostro eroe brutale cerca asilo dalla vita. Ma per lo sguardo disilluso di Malpelo la bellezza è un male, la sua lucida e drammatica concezione dell’esistenza dovrà contaminare anche la natura circostante, sino a renderla buia in eterno, oscura e claustrofobia come deve essere per i minatori la cava di terra. La bellezza di certe notti stellate è per Malpelo cagione di odio e tristezza.

- Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava Malpelo, - dovrebbe essere buio sempre e da per tutto.

- Il tempo e il sistema dei personaggi-
Credo si possa sostenere che l’unico cardine temporale rintracciabile nella novella di Malpelo, punto di riferimento utile alla definizione del prima e del poi, sia la morte di Misciu Bestia. Si fatica notevolmente muovendosi nell’intreccio a ricostruire “una unità di contenuto riordinata secondo successione logico temporale” (la fabula). E’ partendo dal confronto tra fabula e intreccio, tra ciò quindi che è nella volontà espressiva dell’autore ed una forma di parafrasi atta alla descrizione dei punti focali del testo, che vedo nella morte del padre l’asse temporale del racconto. Misciu Bestia muore prematuramente; l’evento genera, oltre allo scatenamento del peggior Malpelo, riferimenti fondamentali per la collocazione spazio temporale del nostro personaggio. E’ dopo la tragedia che Malpelo si rinchiude in una sorta di asocialità scontrosa.
Il Verga di Malpelo non concede al lettore significative descrizioni del tempo che passa se non a volte con formule simili all’ellisse o nella breve raffigurazione di un momento preciso della giornata. Sappiamo che è notte perché il cielo sotto il quale si stende Malpelo per riposare brulica di stelle o che è giorno e c’è luce al di fuori della cava perché consideriamo che la giornata lavorativa dei minatori cominci all’alba per concludersi al tramonto, che i minatori lavorino nelle ore di luce. L’ellisse, per fare un esempio, è palese nel punto un cui l’autore descrive l’involuzione psicologica del personaggio principale.

Dopo la morte del padre pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono con l’anello di ferro al naso.

Il testo è inoltre ricco di analessi, l’autore tende a proiettare improvvisamente Malpelo in un passato contestuale per fornirci i dati necessari utili al rintracciamento di elementi che possano indirizzarci verso le motivazioni che hanno scatenato il suo disagio . Assai ridotta è la pratica della prolessi solo in un passaggio emblematico essa si mostra chiaramente al lettore; dove il narratore descrive Misciu Bestia e in un tentativo di confronto con il figlio fa dire a un personaggio comparsa.

- Va là, che tu non ci morrai nel tu letto, come tuo padre-
Invece nemmeno suo padre ci morì, nel suo letto, tuttochè fosse una buona bestia
In due soli enunciati il Verga ci svela il principio e la conclusione del racconto.
Citando infine le parole del Grosser sulla novella Il Reverendo ma che bene si adattano anche al nostro caso esso dice:

La struttura del racconto obbedisce sostanzialmente a un criterio non cronologico. Ovvero: l’opposizione temporale fondamentale è quella tra tempo o tempi della narrazione e tempo dell’avventura, irriducibile ad un ordine preciso. Ciò che importa al narratore, è infatti delineare il ritratto psicologico e sociologico del Reverendo, non tanto la sua storia: questo spiega anche il notevole rilievo dato agli eventi iterativi rispetto a quelli unici.

L’ importante è marcare profondamente certi indizi con l’unico chiaro intento di descrivere la realtà esistenziale di Malpelo. Da tutto ciò consegue la sua centralità nel sistema dei personaggi. Malpelo è l’unico a possedere uno sviluppo psicologico che lo pone senza dubbio nell’insieme delle personalità a tutto tondo. Gli altri si collocano sostanzialmente come figure secondarie aventi caratteristiche di supporto; sono quindi funzionali al personaggio principale e mantengono per tutta la loro caratteristica principale:”non vengono modificati dalle circostanze; sono monolitici, attraversano le circostanze o sono il frutto di una singola circostanza che li definisce”. Un esempio rappresentativo è la figura del padre che sebbene sia per il protagonista l’unico riscontro oggettivo con il concetto di tenerezza familiare, come personaggio in se non sviluppa una coscienza, non cambia il suo rigido moto di “vita”. Misciu Bestia sembra non far altro che lavorare per mantenere in salute la famiglia. “Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe.” Limitati dal fatto che Misciu muore all’inizio del racconto saremmo comunque portati a pensare che un personaggio che ha caratteristiche simili non potrà rimanere altro che un personaggio piatto.
Di Malpelo, che rispetta le “norme” per essere definito un personaggio complesso e problematico, è descritto sia il critico rapporto con la gente che la sua negativa visione della vita. Forse negativo è un termine che non definisce appieno le peculiarità caratterizzanti il suo pensiero, mi spingo sino a considerare che la filosofia malpeliana è per noi che la interpretiamo certamente pessimistica ma per lui che la vive è necessaria alla sopravvivenza. Vedere la vita come un campo di eterna battaglia dove colui che assegna lo schiaffo più forte è salvo è indubbiamente il primo degli strumenti di difesa che il protagonista fa proprio contro le prevaricazioni subite. Forse in un ambiente sociale estremo come quello della cava le reazioni di Malpelo sono se non condivisibili almeno giustificabili alla luce di una differenza sostanziale, quella cioè fra la violenza di chi opprime e la violenza di chi reagisce all’oppressione. Le vicende rendono Malpelo simile ad un animale rancoroso, egli non è in verità d’indole malvagia. Da qui l’importanza del rapporto che Malpelo instaura con Ranocchio, momento nel quale si snodano i dati necessari a liberare Malpelo dalla taccia d’essere un bambino scellerato.
Il coro dei paesani lo introduce così:

Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto da poco nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio ; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del su, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.

La differenza fra le botte ricevute da Malpelo e quelle che il protagonista infligge a Ranocchio sta fondamentalmente in questo

- Tò, bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che lascerai pestare il viso da questo e da quello!-

Parrebbe iperbolico parlare di pedagogia, schiaffi e pugni finalizzati al bene sono pur sempre una forma brutale ed ingiusta di educazione. Eppure nelle condizioni di vita estrema a cui erano vincolati i minatori sembra un miracolo di socialità questo intento formativo. Credo ci si possa spingere sino a considerare che Malpelo volesse paradossalmente assumere le sembianze del padre che cercava di impartirgli la dolcezza . Malpelo non è come lui, Malpelo è un birbone un vendicativo; tuttavia con Ranocchio cerca di concludere il processo educativo avviato con Misciu bestia. Parliamo di rapporti invertiti, in questo caso Malpelo è il padre e Ranocchio il povero figlio a cui impartire la lezione. Le busse prendono il posto delle carezze, non dimentichiamo che il nostro eroe sebbene non sia una creatura malvagia è pur sempre un violento. Anche quando dona il proprio pane a Ranocchio, quando lo aiuta nei lavori più pesanti, non esprime mai un affetto completo, un affetto che si traduce in un gesto come l’abbraccio o la carezza. Malpelo prova semmai una insana soddisfazione nel mostrare a Ranocchio d’essere una sorta di creatura indistruttibile, un uomo avvezzo alla vita dura della miniera. Ciò che preme a Malpelo è che Ranocchio si faccia le ossa e non può impartirgli la lezione utilizzando strumenti e regole diverse da quelle utilizzate dagli oppressori .
L’estensione della pedagogia paterna su Ranocchio, rivista in chiave malpeliana, è un ulteriore punto di confronto fra l’opinione che la gente ha sullo scellerato Malpelo e l’anima nascosta che il narratore vuole svelare. Una vicenda dimostrativa è quella che vede Malpelo farsi cicerone di Ranocchio, mentre visitano il burrone dove giace la carcassa del grigio.

- Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: << Non più! non più!>>.Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi-

Ranocchio è l’amico silenzioso che ascolta Malpelo, colui che lo assiste durante i lapidari monologhi filosofici, che piega la testa subendo passivamente i metodi estremi d’educazione decisi dall’amico per il suo bene. Vale la pena focalizzarci ancora sull’idea manicheista di Malpelo e confrontare questi due periodi : 

Vedi quella cagna nera?-gli diceva- che non ha paura delle tue sassate? ,non ha paura perché ha più fame gli altri “, “E’ meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi!”

Una evidente corrispondenza di intenti dove Malpelo ci indica le basi della sua teoria: laddove un uomo può vantare la forza, intesa sia come strumento di difesa sia come mezzo per guadagnarsi il pane allora ben venga la vita con tutte le sue ingiustizie ma se la forza manca, se l’indigenza limita la vita anche nelle sue fasi più elementari, allora tanto vale morire.
La morte di Ranocchio non è che una ulteriore prova da annoverare nel manuale della vita. Tutto passa sembra dire il nostro eroe, in attesa della morte tutto è superfluo, poiché dopo non ci sarà nulla, nemmeno il dolore.

Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era asciugata si suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifrai colla figlia maritata, e aveva chiusa la porta di casa. D’ora in poi se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, chè quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.

Ho focalizzato l’attenzione sul binomio in questione perché mi premeva dimostrare come il personaggio principale riesce ad esorcizzare la sua pessima nomea attraverso il particolare rapporto di amicizia con Ranocchio. E’ indubbio che rapportarsi ad una persona attraverso il filtro dell’amicizia presuppone una sensibilità viva. Malpelo forse non la dimostra nelle parole ma è certo l’unico fra i minatori ad occuparsi della salute dell’amico. Qui si snoda la questione, Malpelo è salvo dall’ ignominiosa querela del coro dei paesani. L’altra parte del sistema, cioè tutti i restanti personaggi che ruotano attorno al protagonista e che si configurano in base al rapporto che instaurano con Malpelo, ricoprono una funzione sicuramente importante ma non fondamentale; almeno non di fondamentale importanza quanto il rapporto instaurato fra Malpelo e Ranocchio. E’ indubbio che Malpelo dimostri la sua più recondita natura attraverso il rapporto con l’amico malato.
La madre e la sorella altro non sono che figure piatte che tolgono a Malpelo l’ultima appiglio possibile per godere dell’affetto di una famiglia canonica. Dal padre Malpelo riceve passivamente le carezze e gode della sua compagnia, ma non ha sufficiente tempo per poter formare una personalità mediata da lui, Misciu Bestia muore prematuramente. Il rapporto con la società esterna alla famiglia è pressoché inesistente dato che Malpelo passa il tempo libero in completa solitudine.
Malpelo instaura un rapporto con la vita che lo rende differente da tutti i protagonisti delle novelle contenute in Vita dei Campi. Mi azzardo a dire che il personaggio di Rosso Malpelo è l’unico ad assumere nel corso della storia precise connotazioni di natura esistenziale. A differenza di personaggi come Pentolaccia, Jeli e compare Alfio, Malpelo non muore nella disgrazia, lui non sferra il colpo tragico che concretizza la fase parossistica della vicenda. Questo perché non esiste nulla che lo sconvolga concretamente, non esiste la speranza che le cose cambino; Malpelo vive in una campana di vetro infrangibile. Il fatto che accetti passivamente il pericoloso lavoro di esplorazione della cava, attività che nessuno all’infuori di lui è disposto a fare, non credo sia per Malpelo un cosciente tentativo di suicidio. Il protagonista si limita a ricevere il lavoro perché non ha altra scelta, perché è nel suo destino essere un uomo privo di speranza.

Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicchè pensarono a lui. Allora nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina ancora nel buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.

Per quale motivo altri personaggi, di altre novelle, si scagliano verso la morte con violenza?
Perché compare Turiddu accetta di lottare con compare Alfio e ne muore? Perché Pentolaccia e Jeli si macchiano con il sangue dell’omicidio? Perché la bella Peppa, felice promessa sposa, abbandona il suo roseo futuro di moglie per seguire le sorti di Gramigna il bandito? Questi personaggi inseguono la felicità, e credono di conseguenza nel presente della vita. Non si spiegherebbe l’atto tragico se considerassero l’esistenza come una sosta obbligata in attesa della morte . Per Malpelo invece la morte, anche se non desiderata, è il conseguente spegnimento di tutti i dolori fisici ed esistenziali che un uomo deve sopportare nel corso di una esistenza. Malpelo non considera il concetto di felicità, non attende nulla ed è perciò imperturbabile; la disillusione è quindi la sua più efficace arma di difesa.

L’asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde,e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po’ di vigore nel salire la ripida viuzza. – Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: <<Non più, non più!>> Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio

Bibliografia
Verga, Giovanni
Vita dei campi, in Tutte le novelle, a cura di Sergio Campailla, Biblioteca Economica Newton, Roma 1992.
Grosser, Hermanne
Narrativa : manuale, antologia, Milano : Principato, 1985

venerdì 6 aprile 2012










La primavera

L’inverno aveva rinfrescato anche
il colore delle rocce. Dai monti scendevano,
vene d’argento, mille rivoletti silenziosi,
scintillanti tra il verde vivido dell’erba.
Il torrente sussultava in fondo alla valle tra
i peschi e i mandorli fioriti, E tutto ‘era puro,
giovane, fresco, sotto la luce argentea del cielo.

Grazia Deledda

http://poesia.blog.rainews24.it/2012/03/20/grazia-deledda-la-scrittrice-dimenticata/