venerdì 11 maggio 2012



Emergenze della memoria

Marino Moretti

di Fabio Prestifilippo

La rubrica “urgenze della memoria” che pubblica a scadenza casuale è felice di ospitare tutti i poeti che corrono il rischio di finire nella teca a tenuta stagna dei dimenticati per sempre. Moretti è in pericolo; anche se  insignito ex vivo del più alto fra i riconoscimenti editoriali - il Meridiano Mondadori -  ed anche se Palomar pubblicò nell’antidiluviano 1992 una preziosa edizione di “Poesie scritte col lapis” ed anche se la stessa casa editrice ne ha stampata una nuova edizione con grafica rivista ma con lo stesso apparato critico, se escludiamo alcuni carteggi comparsi miracolosamente dalla nebulosa dell’editoria di nicchia (ultimo dei quali pubblicato da “Storia e Letteratura” collana Epistolari, carteggi e testimonianze per l’accessibilissima cifra di 28 euro)  ad oggi sembra che Marino Moretti sia tra i poeti che  presto o tardi diventeranno introvabili anche nelle biblioteche dei piccoli paesi di provincia.

E voglio che questa nostra
Grande famiglia discreta
Mi guardi e dica: il poeta,

il poeta sulla giostra!
E rida e rida perché
Un poeta che si mostra su
un cavallo della giostra
Sembra il pagliaccio ch’egli è!

(Marino Moretti da La giostra)


Marino Moretti è nato  a Cesenatico in provincia di Forlì nel 1885, da Ettore, impiegato al Comune e imprenditore di trasporti marittimi, e da Filomena Moretti, insegnante elementare, di origine marchigiana. Frequentò la scuola elementare a Cesenatico nella classe della madre, esperienza indubbiamente importante per la formazione della sua personalità.Nel 1896 venne iscritto presso l'Istituto "Sant'Apollinare" di Ravenna diretto da religiosi, ma l'anno seguente lo abbandonò per il profitto scadente. Si iscrisse quindi al liceo-ginnasio "Vittorino da Feltre" di Bologna che lasciò nel 1900, senza aver conseguito la licenza ginnasiale...


di Marino Moretti
A Cesena

Piove. E’ mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia delle case senza posa,
schiume ai piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella tua vita, bella.

Bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un pò di bene.

“Mamma!” tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei viaggi, poi...

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perchè; ripeti ancora
quando, come, perchè, chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo , di nuora.
Parli d’una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto,
il nonno ricco del tuo Dino, e dici:
“Vedrai, vedrai se lo terrò di conto”.

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.


Piove. E’ mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui,
tutta d’un uomo ch’io conosco appena,

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla... così,
senza dolcezza mentre piove o spiove:

“La mamma nostra t’avrà detto che...
E poi si vede, ora si vede, e come!
Sì, sono in cinta... Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome...
Ho fortuna, è una buona gravidanza...”

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. E’ tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

Io non ho nulla da dire

Aver qualche cosa da dire
nel mondo a se stessi, alla gente.
Che cosa? Non so veramente
perché io non ho nulla da dire.

Che cosa? Io non so veramente.
Ma ci sono quelli che sanno.
Io – lo confesso a mio danno –
non ho da dir nulla ossia niente.

Perché continuare a mentire,
cercare d’illudersi? Adesso
ch’io parlo a me mi confesso:
io non ho niente da dire.

Eppure fra tante persone,
fra tanti culti colleghi
io sfido a trovar che mi neghi
d’aver questa o quella opinione,
e forse mia madre, la sola
che veda ora in me fino in fondo,
è certa che anch’io venni al mondo
per dire una grande parola.

Gli amici discutono d’arte,
di Dio, di politica, d’altro:
è c’è che mi crede il più scaltro
perché mi fo un poco in disparte;

qualcuno vorrebbe sentire
da me qualche cosa di più.
"Hai nulla da aggiungere tu?"
"Io, no, non ho niente da dire."

È triste. Credetelo, in fondo,
è triste. Non esser niente.
Sfuggire così facilmente
a tutte le noie del mondo.

Sentirsi nell’anima il vuoto
quando altri più parla e ragiona.
Veder quella brava persona
imporsi un gran compito ignoto.

E quelli che chiedono a un tratto:
"Che avresti tu detto al mio posto?"
"Io…Non avrei forse risposto…
Io…mi sarei finto distratto."

Non aver nulla, né mire,
né bei sopraccapi, né vizi;
osar fino in mezzo ai comizi:
"No, sa? Non ho niente da dire."

Ed esser creduto un insonne,
un uomo che veglia sui libri,
un’anima ardita che vibri
da tutto uno stuolo di donne.

"Mi dica, sua madre che dice?
Io so dai suoi libri che adora
sua madre. Nevvero, signora?
nevvero che è tanto felice?

Un figlio! Vederlo salire,
seguirne il pensiero profondo…"
Ed io son l’unico al mondo
che non ha niente da dire.

(da Il giardino dei frutti)

La signora Lalla

Quando l'anima è stanca e troppo sola
e il cuor non basta a farle compagnia,
si tornerebbe discoli per via,
si tornerebbe scolaretti a scuola.

Ma sì, prendiamo la cartella scura,
il calamaio in forma di barchetta,
i pennini, la gomma, la cannetta,
la storia sacra e il libro di lettura.

Andiamo dunque: il tema è messo in bella;
andiamo, andiamo: il tema è messo in buona;
Dio, com'è tardi! La campana suona,
tra poco sonerà la campanella.

Ma che dico? è domenica, è vacanza!
Non c'è scuola quest'oggi, solamente
c'è da imparare un po' di storia a mente
soli, annoiati, nella propria stanza.

C'era una volta (ora mi viene a mente)
la scuola della festa: era una scuola
alla buona, così, con una sola
maestra, vecchia, senza la patente.
Signora Lalla, dove sei? T'aggiri
nella tua casa piena di panchetti
e sul quaderno scrivi un 5 o metti
un punto sopra un i con due sospiri?

Signora Lalla, hai più quel mio ritratto
ch'io ti donai per Sant'Eulalia? e quella
treccia, in un quadro, d'una tua sorella
defunta? e l'altarino è ancora intatto?

Forse sei morta. Ed i tuoi strani oggetti
sono scesi con te, con la tua spoglia
dentro la fossa. La tua casa è spoglia
dei quadri, dei presepi e dei panchetti.

Che importa? Io t'amo e tu sei viva, o muta
immagine che guardi i miei quaderni
d'ora e i noti caratteri vi scerni
con uno sguardo di sopravvissuta.

Come son vani, come son diversi,
signora Lalla, i miei compiti d'ora.
Dimmi, vuoi riguardarmeli tu ancora?
Sembra uno scherzo, ma son tutti in versi.

(da Poesie scritte col lapis)

Valigie

Voglio cantare tutte l’ore grigie
in questa solitudine pensosa
mentre raduno ogni mia vecchia cosa
a riempir le mie vecchie valigie.

Oh le valigie, le compagne buone
dei poveri viaggi in terza classe
vecchie, sfiancate, fatte con qualche asse
sottile e con la tela e col cartone.

Le camicie van qui da questa parte,
quaggiù ai colletti cerco di far posto,
lì le cravatte e qua, quasi nascosto,
un manoscritto, e ancora libri e carte.

Ecco il pacchetto della mamma. Odora
vagamente di cacio e di salame.
Già, se avessi in viaggio ancora fame.
E questo libro e un altro, un altro ancora.

Dove vado? Non so. Ma mi sovviene
d’averla pur desiderata questa
partenza come, il piccolo, la festa
che col serraglio e con la giostra viene.

Dove, non so. Ma pare a me ch’io debba
vivere senza scopo, allo sbaraglio;
e a tratti con l’inutile bagaglio
partir per i paesi della nebbia…

(da Poesie di tutti i giorni)

La signorina più vecchia di me


Se amassi voi, se amassi voi che avete
dieci anni più di me, che su la fronte
gialliccia avete ormai tutte le impronte
di quei dieci anni di ansietà segrete!

Voi lavorate accanto alla finestra
fiorita di vasetti di vaniglia,
e siete ancora figlia di famiglia,
e avete la patente di maestra!

Che tristezza pensarvi! Avete amato
una sol volta quindici anni fa;
ma, ohimè, raggiunta la felicità,
vi morì di pleurite il fidanzato.

Un mese prima delle nozze! Ebbene,
vi giuro che geloso io non sarei
del suo ricordo e vi permetterei
di ripensarlo e di volergli bene.

E se un giorno appressasi al vostro stanco
volto o ai capelli le mie labbra amare
non mi dispiacerebbe di baciare
una ruga profonda, un filo bianco!

Dolce sarebbe la mia vita, uguale,
placida, tra i vasetti di vaniglia,
e, intenta al batter delle vostre ciglia,
scorderebbe i suoi sogni ed il suo male.

E vi direi prendendovi le dita
un pò indurite, un pò forate in cima:
“ Posso giurarti che tu sei la prima,
la prima donna che amo per la vita! “

E allora, con un gesto un pò materno,
voi mi direste flebile: “ Bambino! “,
ma mi verreste sempre più vicino
per sussurrarmi: “ In eterno! In eterno! “

Il paiuolo

Madre, se vuoi ch’io t’ami
come ti si conviene,
resta fra i tuoi tegami
smaltati bianchi e blu:
vuoi ch’io ti voglia più’
bene, molto più’ bene?

Resta in cucina dove
la tua dolcezza ha un gaio
riso che mi commuove
quando passa bel bello
dall’acquaio al fornello,
dal fornello all’acquaio;

poi va’, corri in giardino
e coglilo un rametto
d’adusto ramerino
o di scherzoso alloro
o qualche pomodoro
ancora un poco aspretto;

poi trita con un muto
cenno le tue cipolle
giovani pel battuto
e accortamente schiuma
la pentola che bolle,
il bricchetto che fuma;

si’ che, mentre la fiamma
si fa sempre più’ roca
nella cappa segreta,
tu pensa che la mamma
del giovane poeta
sa fare anche la cuoca.

Oh lascia che io prenda
queste mani che sanno
di carne cotta in forno
e far sempre sapranno
ogni buona faccenda
fino all’ultimo giorno;

oh lascia ch’io dica:
“ Triste, mammina, triste
sapere troppe cose
e cercar fra l’ortica
o fra le vuote ariste
rose e foglie di rose;

dolce invece sostare
in questi vaghi odori

guardando il focolare
e i fumi di vapori
che con labile volo
escono dal paiuolo.”

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